Onorevoli Deputati! - L'introduzione del codice di procedura penale cosiddetto «Vassalli», nel 1989, ha determinato la trasformazione del processo penale italiano, tradizionalmente «inquisitorio», verso un modello di tipo «accusatorio».
Tuttavia gli interventi della Corte costituzionale scaturenti dal delicato passaggio da un sistema all'altro, da un lato, e la presenza di una legislazione emergenziale che ha caratterizzato i primi anni novanta (per fare fronte in particolare ai fenomeni di mafia e di corruzione), dall'altro, hanno introdotto una serie di interferenze con i princìpi cardine del modello prescelto, che hanno fortemente alterato l'originaria struttura del codice, facendo perdere poi progressivamente il carattere di sistematicità e di coerenza intrinseca all'intero sistema.
L'introduzione del canone costituzionale del cosiddetto «giusto processo» (articolo 111 della Costituzione, come novellato dalla legge costituzionale n. 2 del 1999), se da un lato ha ribadito l'importanza del contraddittorio nella formazione
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della prova e la necessità che il processo si celebri dinanzi a un giudice terzo e imparziale, ha altresì introdotto nella nostra Carta fondamentale un altro principio di particolare rilievo, quello della ragionevole durata del processo, imponendo al legislatore di realizzare un sistema di «garantismo efficiente», che coniugasse in modo coerente garanzie sostanziali per l'imputato e tutela della ragionevole durata del processo, sul presupposto che l'efficienza del sistema della giustizia è un fattore vitale della democrazia.
Il presente disegno di legge propone, dunque, un intervento «di sistema» volto a razionalizzare il processo penale alla luce di siffatto principio.
Per raggiungere tale obiettivo, l'esperienza ha dimostrato che la riforma delle regole del processo è necessaria, ma non sufficiente: occorre anche agire sull'organizzazione (ordinamento e organizzazione vera e propria) e sulle prassi, in quanto nessun processo può funzionare bene in una realtà organizzativa malata o inefficiente. Il risultato cui mira e deve mirare l'organizzazione è il processo; il discorso processuale deve avere di mira, a sua volta, il suo risultato e cioè la giustizia e la rapidità della decisione.
Dai meccanismi della giustizia deve essere espunto tutto ciò che in concreto allunga, complica e intralcia senza servire davvero ad attuare un processo giusto in concreto. Questo significa anche contrastare severamente tutte le manifestazioni di abuso del processo.
La regolazione del processo deve quindi essere orientata al perseguimento di obiettivi, oltre che al rispetto dei princìpi. Un pragmatismo orientato a dare attuazione ai princìpi e in particolare al principio fondamentale secondo cui il processo deve servire alla tutela dei diritti. E se l'obiettivo del processo è la tutela dei diritti sostanziali, la finalità delle norme che regolano il processo deve essere necessariamente quella di assicurare che il processo sia adeguato a tale obiettivo.
L'esperienza storica dimostra che vi è una sorta di naturale e perversa tendenza delle prassi a collocarsi a un livello inferiore e peggiore rispetto alle regole processuali. Ma l'esperienza ha anche dimostrato che la riforma delle regole processuali può funzionare come fattore di spinta al rinnovamento culturale delle prassi.
Affinché il processo si svolga in modo giusto occorre in primo luogo che siano rispettati i princìpi del contraddittorio, del diritto di accusa e di difesa, della parità delle parti e dell'imparzialità del giudice.
Ma occorre anche che il processo si svolga in modo tale da tendere a una decisione giusta, oltre che sollecita: non è infatti attraverso una tutela «sommaria», ancorché rapida, che si persegue l'obiettivo di un processo «equo».
Il processo, dunque, deve svolgersi in conformità ai princìpi di diritto specifici, ma anche secondo criteri di efficienza, di trasparenza, di comprensibilità (non è corretto un processo che si svolge in modo incomprensibile per il cittadino), di parità e di solidarietà.
In secondo luogo, «giusto processo» significa che il processo deve fare giustizia e, cioè, che deve svolgersi in modo da favorire il perseguimento di una decisione giusta ai sensi dell'articolo 24 della Costituzione con una «decisione sul merito». Il che significa che il principio del giusto processo, in congiunzione con quello della ragionevole durata dei processi, impone di ridurre al minimo indispensabile le norme e le interpretazioni che comportano, favoriscono o consentono decisioni che non risolvono il merito o che lo risolvono in base agli effetti delle forme processuali, anziché in base alle ragioni sostanziali.
In questo senso va intesa l'essenziale strumentalità del processo.
E ben difficilmente può essere considerata giusta una decisione basata su un accertamento dei fatti non conforme all'effettiva realtà materiale (così come reiteratamente affermato dalla Corte costituzionale). Il processo, quindi, per essere giusto deve essere modellato in modo tale da pervenire a una decisione giusta e, dunque, basata su un accertamento dell'effettiva verità materiale in ordine ai fatti che sono oggetto di contestazione: nella
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misura del possibile, ovviamente, e in armonico contemperamento con gli altri princìpi costituzionali sul processo.
Ciò premesso, il criterio guida su cui si snoda il presente disegno di legge consiste, pertanto, nella costante ricerca di un punto di equilibrio tra le garanzie dell'imputato e l'efficienza del processo, secondo i canoni ricavabili dall'articolo 111 della Costituzione. In tale ottica, si è operato su vari istituti processuali in maniera da distribuire il «costo» del recupero della celerità del processo in modo equilibrato con riferimento alla posizione dei vari attori dello stesso: polizia giudiziaria, pubblico ministero, difensore, giudice e imputato.
Si intende fornire, pertanto, una risposta ai numerosi problemi che, sul versante giurisdizionale penale, impediscono di offrire una risposta efficiente ed efficace all'esigenza dei cittadini di fruire di un processo equitable.
Lunghezza dei processi, alto indice di prescrizione dei reati, presenza di un sistema di garanzie difensive spesso meramente formale, ineffettività della pena hanno progressivamente reso il sistema penal-processuale in gran parte inidoneo a rispondere alle esigenze che lo sviluppo sociale richiede.
In attesa di una organica riforma dei due codici (penale e di procedura penale), in relazione alla quale sono state istituite dal Ministro della giustizia in data 26 luglio 2006 apposite Commissioni, presiedute rispettivamente dall'avvocato Giuliano Pisapia per il codice penale e dal professor Giuseppe Riccio per codice di rito, l'andamento dei cui lavori è stato tenuto costantemente presente nel corso della redazione del presente disegno di legge, lo stesso disegno di legge offre una serie di risposte ai problemi più urgenti, in modo da restituire al processo, come detto, quel carattere di efficienza che esso dovrebbe possedere in funzione del principio costituzionale della ragionevole durata.
Il disegno di legge è stato suddiviso in capi autonomi, per agevolare la lettura delle disposizioni introdotte e sottolineare il loro rilievo sistematico.
Al capo I, in tema di competenza, si ritiene opportuno ridisciplinare tutta la materia dell'incompetenza, evitando che vizi di incompetenza, soprattutto se mai rilevati o eccepiti, possano pregiudicare processi spesso già pervenuti a sentenza, anche di secondo grado.
In particolare, si è ritenuto di incentrare sulla Corte di cassazione, organo giurisdizionale naturalmente deputato a decidere sulle questioni di giurisdizione e di competenza, l'ultima parola sull'eccezione di incompetenza, anticipando tuttavia tale pronuncia alla fase degli atti preliminari al dibattimento.
Sul punto, appare doveroso premettere come la Corte costituzionale, chiamata ad esprimersi circa la legittimità costituzionale dell'attuale articolo 21 del codice di procedura penale in relazione all'articolo 25 della Costituzione, abbia affermato come appartenga alla discrezionalità del legislatore limitare la rilevabilità dei vizi di competenza a tutela «dell'interesse all'ordine e alla speditezza del processo», sempre che siano «chiaramente determinati in anticipo i criteri in base ai quali la competenza deve essere stabilita» (Corte costituzionale, ordinanza n. 521 del 1991, sentenza n. 77 del 1977).
In tal senso, si prevede pertanto [articolo 1, comma 1, lettera b)] la sostituzione dell'articolo 21 del codice di rito, mediante la previsione secondo cui l'incompetenza per territorio, quella per connessione e quella per materia devono essere eccepite entro la chiusura dell'udienza preliminare ovvero, se essa manchi, entro il termine di cui all'articolo 491 del codice di rito. Se l'eccezione era già stata formulata in udienza preliminare, essa deve essere riproposta nelle questioni preliminari.
In tale modo si concentrano nell'articolo 21 tutte le barriere preclusive, mentre si lascia all'articolo 23 la disciplina degli effetti della declaratoria di incompetenza. Conseguentemente è stata anche modificata la disciplina dell'articolo 491, estendendo il riferimento contenuto in tale
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articolo anche all'incompetenza per materia [lettera l)].
Contro l'ordinanza che il giudice del dibattimento emette sull'eccezione di incompetenza, le parti possono ricorrere immediatamente per cassazione, ma il ricorso non ha effetto sospensivo [articolo 23-bis, come introdotto dalla lettera d)].
Se esso viene dichiarato inammissibile ovvero rigettato, sulla questione della competenza cade il giudicato ed essa non può essere più riproposta.
Si è conseguentemente riformulato l'articolo 23. Con riferimento a tale ultima norma, si è ritenuto necessario ripristinare il testo anteriore alle sentenze della Corte costituzionale nn. 76 del 1993, 214 del 1993 e 70 del 1996, con i dovuti accorgimenti.
Le citate sentenze, infatti, hanno stabilito il principio secondo cui in caso di declaratoria di incompetenza, gli atti vanno trasmessi al pubblico ministero competente, anziché al giudice competente. La motivazione delle sentenze, tuttavia, era imperniata sulla necessità di garantire all'imputato la remissione in termini per richiedere i riti alternativi, e non anche sull'illegittimità della procedura in sé considerata.
Tale intervento, tuttavia, determinando un sistema automatico di regressione del procedimento alla fase delle indagini preliminari, ha comportato un'indubbia ricaduta negativa sul tempo di durata dei processi, anche perché foriero di ulteriori dubbi interpretativi, che hanno dato adito a nuovi contrasti giurisprudenziali (si pensi, ad esempio, alla questione relativa alla formulazione o meno di un nuovo avviso di conclusione delle indagini preliminari da parte del pubblico ministero, questione oggetto di numerosi motivi di impugnazione).
L'intervento proposto prevede, dunque, l'integrale sostituzione dell'articolo 23, con l'inserimento di un nuovo comma 2 in base al quale l'imputato, entro il termine previsto dall'articolo 491, comma 1, può chiedere il giudizio abbreviato o l'applicazione della pena su richiesta delle parti; in tale caso il giudice procede nelle forme previste dagli articoli 452, comma 2, e 446, comma 1.
Si è quindi proceduto all'abrogazione dell'articolo 24, dovendo, come detto, le questioni di competenza essere risolte esclusivamente tramite il ricorso immediato per cassazione previsto dall'articolo 23-bis.
La lettera g), quindi, sostituisce il comma 2 dell'articolo 26, prevedendo che «se le prove di cui al comma 1 hanno contenuto dichiarativo, si applica l'articolo 190-bis».
Si è, inoltre, previsto [lettere h) e i)] che, conformemente a quanto previsto per le questioni di competenza, anche nel caso di rigetto dell'eccezione relativa alla composizione del giudice ai sensi dell'articolo 33-quinquies sia esperibile unicamente lo strumento del ricorso immediato per cassazione ai sensi dell'articolo 23-bis; le relative questioni, invero, non assurgono propriamente al rango delle questioni di competenza, tanto che il legislatore ha ritenuto di disciplinarle con separato capo del codice di rito e separata regolamentazione. Proprio tale loro minore rilevanza - desunta anche dalla previsione della relativa decisione mediante ordinanza e non con sentenza, come invece accade per le questioni di competenza propriamente dette - impone, allora, di evitare che le eventuali decisioni di rigetto delle stesse risultino impugnabili anche congiuntamente all'impugnazione di merito o di legittimità della relativa sentenza, come non più consentito nemmeno per le questioni di competenza vere e proprie. Si propone, pertanto, l'assimilazione del regime delle eccezioni relative alla composizione del giudice a quelle di competenza.
La lettera a), infine, interviene sull'articolo 16 del codice, il cui comma 1 prevede che in caso di connessione ai sensi dell'articolo 12, è competente in ordine a tutti i reati connessi il giudice competente per territorio in ordine al reato più grave.
Tale norma è evidentemente dettata al fine di consentire il simultaneus processus in caso di reati connessi ed evitare complesse questioni di competenza.
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La Corte di cassazione ha sinora interpretato la norma stabilendo il principio secondo cui «ove non sia possibile individuare il luogo di consumazione del reato più grave», non sarebbe consentito il ricorso ai criteri residuali di cui all'articolo 9, riferibili al solo caso di contestazioni singole, ma si dovrebbe «avere riguardo al luogo di consumazione del reato che, in via decrescente, si presenta come più grave tra quelli residui» (vedi, per tutte, Cassazione, sentenza n. 3624 del 1993).
Tale interpretazione è stata foriera nel corso degli anni di oscillanti valutazioni giurisprudenziali che hanno determinato un'oggettiva situazione di incertezza processuale.
Per risolvere i contrasti insorti si è inserita, quindi, al comma 1 dell'articolo 16 la formula secondo cui in relazione al reato più grave individuato ai sensi del comma 1 la competenza viene determinata attraverso il ricorso ai criteri di cui agli articoli 8 e 9 del codice.
In caso di nuove contestazioni, si è proceduto a riformulare gli articoli 516 e 517 e a prevedere un nuovo articolo (518-bis), nonché a rivedere la portata dell'articolo 25. La modifica introdotta si rende infatti necessaria al fine di garantire la copertura costituzionale delle nuove norme.
E, infatti, il caso delle nuove contestazioni in dibattimento è stato oggetto di frequenti pronunce di incostituzionalità da parte della Corte costituzionale (sentenze nn. 265 del 1994, 530 del 1995, 241 del 1992, 50 del 1995), in cui la Corte ha rinvenuto una violazione del diritto di difesa, legata al fatto che l'esercizio del diritto di accedere a riti alternativi o del diritto alla prova erano, sostanzialmente, rimessi non alla volontà del titolare del diritto, bensì a quella del pubblico ministero.
Nel caso di specie, però, non è il diritto di difesa ad essere compresso, quanto il diritto ad essere giudicato dal «giudice naturale precostituito per legge» (articolo 25, primo comma, della Costituzione).
Si è ritenuto pertanto che laddove nessun profilo di inerzia possa essere addebitato all'imputato (in quanto la nuova qualificazione del fatto o la contestazione di una circostanza aggravante o di un reato concorrente sono responsabilità del pubblico ministero), lo stesso, oltre ad avere diritto di accedere ai riti alternativi e alla prova, deve avere il pieno diritto di proporre (o di riproporre) la questione di competenza ovvero quella relativa alla composizione del giudice (articolo 518-bis).
Una cristallizzazione irreversibile della competenza in una fase in cui il contraddittorio nella formazione della prova non si è ancora instaurato, infatti, potrebbe comprimere in modo eccessivo il diritto costituzionale al giudice naturale.
Nel caso previsto dall'articolo 518, comma 2, tuttavia, si ritiene che il consenso prestato dall'imputato alla nuova contestazione sani ogni eventuale vizio di competenza. Tale soluzione appare in linea con la sentenza n. 316 del 1992, in cui la Corte ebbe a dichiarare, con riferimento ai riti alternativi che «il relativo rischio rientra naturalmente nel calcolo in base al quale l'imputato si determina a chiedere o meno tale rito, onde egli non ha che da addebitare a se medesimo le conseguenze della propria scelta» (vedi anche ordinanza n. 107 e sentenza n. 129 del 1993).
Conseguentemente, dall'articolo 25 è stato eliminato ogni riferimento alla competenza; la norma, pertanto, concernerà solo il valore del decisum di cassazione con riferimento alla questione di giurisdizione.
Con l'articolo 2 si inserisce nelle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, di cui al decreto legislativo n. 271 del 1989, di seguito denominate «norme di attuazione», l'articolo 4-ter, mediante il quale si chiarisce che, quando viene pronunciata l'incompetenza per territorio, anche determinata da connessione, il fascicolo del pubblico ministero deve essere trasmesso senza ritardo all'ufficio del pubblico ministero presso il giudice competente. Questo per evitare che la declaratoria di
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incompetenza possa determinare un eccessivo ritardo alla speditezza del procedimento a causa del tempo intercorso tra la decisione e l'effettiva trasmissione del fascicolo all'ufficio di destinazione.
In tema di notificazioni degli atti (capo II), è stato previsto un intervento che si muove lungo tre distinte direttrici.
La prima è quella, coerentemente con la disciplina che si andrà a introdurre in tema di rito contumaciale, di favorire la conoscenza «effettiva» del procedimento da parte dell'imputato.
La seconda è quella di neutralizzare gli effetti di tutte le disposizioni che, contenendo una serie di garanzie meramente formali, prive di utilità sostanziale sotto il profilo dell'effettivo esercizio del diritto di difesa, si risolvono in realtà in una inutile dilatazione dei tempi del procedimento penale.
La terza, che si muove in armonia con l'intento di riqualificare il personale amministrativo degli uffici giudiziari, consiste nel valorizzare i compiti degli ufficiali giudiziari, affidando loro una serie di attività qualificate funzionalmente nell'ottica della riduzione dei tempi processuali.
La lettera a) del comma 1 dell'articolo 3 introduce al comma 2 dell'articolo 107 nuove disposizioni, secondo le quali, in caso di rinuncia del difensore al mandato, l'autorità giudiziaria provvede immediatamente alla nomina di un difensore d'ufficio, salva la nomina di un nuovo difensore di fiducia. Tale disposizione va posta in correlazione con la modifica apportata [lettera h)] all'articolo 157, comma 8-bis, secondo cui, salva l'ipotesi in cui la legge non disponga altrimenti (atti che l'imputato debba ricevere «personalmente»), le notificazioni successive sono eseguite, in caso di nomina di difensore di fiducia ai sensi dell'articolo 96, mediante consegna di copia dell'atto al difensore. Il difensore può dichiarare all'autorità che procede di non accettare la notificazione solo nel caso di rinuncia al mandato difensivo.
Tale modifica intende valorizzare, anche a seguito degli orientamenti giurisprudenziali successivi alla pronuncia della Corte di cassazione sul cosiddetto «caso Somogyi», il ruolo del difensore di fiducia, accentuandone ulteriormente la valenza rispetto alla difesa d'ufficio e riconoscendo al relativo rapporto professionale («fiduciario» nel senso più rigoroso del termine) un inedito rilievo specifico e concreto (nei limiti prima rilevati) sotto il profilo del soddisfacimento reale di tale esigenza di «conoscenza effettiva». Si è ritenuto pertanto di prevedere, per il difensore di fiducia che non voglia o non possa (ad esempio per impossibilità di contattare l'assistito) adempiere il mandato, la possibilità di rinunciare e di essere immediatamente sostituito.
La norma è completata da un'estensione dell'applicazione del principio anche alle comunicazioni di atti e agli avvisi.
A fini acceleratori, è stato ritenuto opportuno [lettera c)] sostituire il comma 2 dell'articolo 148, oggetto di recente modifica normativa ad opera del decreto-legge n. 144 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 155 del 2005, tenendo conto delle difficoltà operative concernenti l'utilizzazione della polizia penitenziaria per lo svolgimento delle udienze dinanzi al tribunale del riesame, prevedendosi che nei procedimenti con detenuti, il giudice può disporre che le notificazioni agli stessi siano eseguite dalla polizia penitenziaria; in questo caso viene valorizzata la prossimità della polizia penitenziaria con i detenuti, e il conseguente ricorso «ordinario» alla stessa per l'esecuzione delle attività di notificazione; le notificazioni dovranno comunque essere eseguite con l'osservanza delle norme a tale riguardo previste dal codice.
La lettera d) contiene una norma di notevole rilievo. Essa introduce, per la prima volta nel processo penale, il concetto di notificazione di atti per mezzo di «posta elettronica certificata». Si prevede infatti che le notificazioni di atti ai difensori [anche quando la notificazione all'indagato sia sostituita, nei casi previsti tassativamente della legge, da quella al difensore di fiducia: articolo 157, comma 8-bis, sostituito dalla lettera h)] debbano, ove tecnicamente possibile, avvenire in tale
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modo, consentendo indubbi risparmi di mezzi e di personale. Analoga previsione concerne gli avvisi e le comunicazioni tra uffici giudiziari [articolo 5, comma 1, lettera d), che modifica l'articolo 64 delle norme di attuazione]. Analogamente viene consentito - con la modifica all'articolo 121 del codice, apportata dalla lettera b) del comma 1 dell'articolo 3 - ai difensori di inviare memorie o istanze, ove non diversamente disposto, per il tramite della medesima posta certificata.
Tale «pacchetto» di norme viene completato dalla previsione dell'invio delle minute delle richieste di provvedimenti e degli atti su cui esse si fondano anche per via telematica o su supporto informatico. Essendo, infatti, spesso necessario nei provvedimenti giurisdizionali riportare brani interi di parti di atti del procedimento, in tal modo si evita di gravare le cancellerie o gli stessi giudici della necessità di lunghe ed inutili copie manuali, con notevole risparmio di tempo (articolo 42, comma 1-bis, delle norme di attuazione, introdotto dall'articolo 5, comma 1, lettera b), del disegno di legge).
Sempre nell'ottica dell'accelerazione, la lettera e) prevede che all'articolo 150, comma 1, le parole: «Quando lo consigliano circostanze particolari,» siano soppresse, consentendo il ricorso a particolari forme di notificazione a soggetti diversi dall'imputato in via ordinaria. Tale disposizione appare in linea anche con i progressi della tecnica, che oggi consente il ricorso alle forme «certificate» di comunicazione anche per via informatica o telematica, dianzi evidenziate.
La lettera f) modifica il comma 1 dell'articolo 151, prevedendo che le notificazioni di atti del pubblico ministero nel corso delle indagini preliminari siano eseguite dall'ufficiale giudiziario e che possano tuttavia essere eseguite dalla polizia giudiziaria nei casi di atti di indagine o provvedimenti che la stessa polizia giudiziaria è delegata a compiere o è tenuta ad eseguire, ovvero, quando motivate ragioni lo impongano, dalla sezione di polizia giudiziaria.
Tale norma introduce una possibilità di deroga per il pubblico ministero in presenza di «concrete e motivate ragioni d'urgenza» (il riferimento alla «concretezza» delle ragioni esclude la possibilità di trasformare l'istituto in una sorta di meccanismo «ordinario», sorretto da motivazioni apodittiche o meramente apparenti) che non consentano il ricorso alle notificazioni a mezzo dell'ufficiale giudiziario (le ipotesi possono essere molte: dalla prossimità dei termini di prescrizione del reato al cospicuo numero degli imputati, dislocati sul territorio nazionale, eccetera).
A fini acceleratori, si prevede altresì [lettera g)] che le notificazioni richieste dalle parti private siano sempre sostituite dall'invio di copia dell'atto effettuata mediante lettera raccomandata con avviso di ricevimento, eventualità questa già prevista nella precedente formulazione dell'articolo 152, ma in via meramente facoltativa.
In coerenza con il duplice obiettivo di accelerare i tempi del procedimento e di introdurre meccanismi di riqualificazione del personale, la lettera l) sostituisce integralmente l'articolo 159.
Si prevede che nell'impossibilità di eseguire le notificazioni nei modi previsti dall'articolo 157, l'ufficiale giudiziario stesso procede, anche consultando i competenti uffici pubblici, a nuove ricerche dell'imputato presso l'amministrazione penitenziaria centrale, i luoghi di nascita, residenza anagrafica, domicilio, dimora e lavoro, e procede d'ufficio alla nuova notificazione, potendo anche delegare l'ufficiale giudiziario competente per territorio ad eseguire la notificazione.
Ai sensi del comma 2 del novellato articolo 159, in caso di esito negativo delle ricerche, l'autorità giudiziaria, nel corso delle indagini preliminari ovvero nell'udienza preliminare, emette decreto di irreperibilità con il quale, dopo avere nominato un difensore all'imputato che ne è privo, ordina che la notificazione sia eseguita mediante consegna di unica copia dell'atto al difensore. Resta ferma la possibilità per l'autorità giudiziaria di rinnovare,
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solo ove assolutamente necessario, le ricerche tramite la polizia giudiziaria.
Tale disposizione è completata dall'articolo 54-bis introdotto nelle norme di attuazione [articolo 5, comma 1, lettera c)], che disciplina la documentazione da parte dell'ufficiale giudiziario delle attività di ricerca dell'imputato, secondo cui:
«1. Quando l'ufficiale giudiziario procede a ricerche dell'imputato ai sensi dell'articolo 159 del codice, redige verbale delle ricerche compiute, indicando i luoghi, le persone e gli enti interpellati. Al verbale deve essere allegata copia di tutta la documentazione fornita da dette persone o enti.
2. Quando incarica della notificazione l'ufficiale giudiziario competente per territorio, l'ufficiale giudiziario trasmette allo stesso copia di tutta la documentazione utile al reperimento dell'imputato».
Non viene modificato il vigente comma 2 dell'articolo 159 (comma 3 nel testo novellato), secondo cui le notificazioni in tal modo eseguite sono valide ad ogni effetto. L'irreperibile è rappresentato dal difensore.
Tale norma, tuttavia, in armonia con la filosofia di fondo del disegno di legge, verrà ad assumere un rilievo molto minore rispetto alla disciplina attuale nella fase dibattimentale, proprio per rispettare l'esigenza di assicurare all'imputato una conoscenza «effettiva» del procedimento penale a suo carico.
La lettera m) apporta all'articolo 161 un modesto adattamento, che recepisce il contributo univoco della giurisprudenza di legittimità, chiarendo alcuni aspetti dubbi della disposizione: all'articolo 161, infatti, il primo periodo del comma 4 è sostituito dal seguente: «Nei casi di cui ai commi 1 e 2, quando l'ufficiale giudiziario accerta l'impossibilità di eseguire la notifica dell'atto all'imputato presso il domicilio dichiarato o eletto ovvero presso il domicilio determinato, procede alla notificazione dello stesso mediante consegna di unica copia al difensore, dando atto, nella relazione di cui all'articolo 168, dell'omessa notificazione presso il domicilio eletto, dichiarato o determinato».
La lettera n), infine, prevede che le notifiche delle sentenze nei confronti degli imputati non possano più essere effettuate a mezzo della posta. Detta modifica - da leggere insieme a quella apportata all'articolo 1 della legge 20 novembre 1982, n. 890, dal successivo articolo 4 - è in primo luogo volta a rendere quanto più effettiva possibile (si veda quanto infra esposto in relazione al capo VII del presente disegno di legge) la conoscenza da parte dell'imputato del processo celebrato nei suoi confronti; la sentenza resa dalla Corte costituzionale in data 22-23 settembre 1998, n. 346 - con la quale si dichiarava l'illegittimità costituzionale dell'articolo 8, secondo comma, della legge 20 novembre 1982, n. 890 - è stata esplicita nell'affermare l'inidoneità della notifica a mezzo posta a costituire sempre e in ogni caso una garanzia effettiva in tal senso. In secondo luogo tale modifica potrà sensibilmente contribuire alla riduzione dei tempi intercorrenti tra l'emissione della decisione e il passaggio del fascicolo in appello a seguito dell'eventuale impugnazione; attualmente, infatti, gli ufficiali giudiziari si limitano, a meno di contrario ordine da parte del magistrato procedente, ad inviare all'imputato copia dell'atto, con la conseguenza che sarà in ogni caso necessario attendere la conclusione dell'iter postale, lungo e farraginoso, del plico per considerare correttamente effettuata la relativa notifica. Se, viceversa, l'ufficiale giudiziario dovrà recarsi di persona ad espletare tale incombente, è ragionevole ritenere che l'esito delle notifiche raggiungerà «in tempo reale» le cancellerie, le quali potranno provvedere più rapidamente alla trasmissione dei fascicoli alla corte d'appello.
Al capo III sono previste disposizioni in materia di inutilizzabilità degli atti processuali. La categoria dell'inutilizzabilità è infatti oggetto, nel presente disegno di legge, di una definizione più puntuale anche alla luce dei più consolidati orientamenti giurisprudenziali; l'istituto in questione nacque per reagire a ipotesi di grave
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violazione dei diritti degli indagati e degli imputati: perquisizioni effettuate senza mandato, intercettazioni illegittime, confessioni estorte. Nella legislazione successiva è, poi, diventato un mezzo per sanzionare deviazioni anche minime dal modello legale, determinate persino da leggi successive che hanno modificato le modalità di acquisizione del materiale probatorio; basti ricordare le vicende relative all'introduzione dell'articolo 141-bis ed alle modifiche dell'articolo 513 del codice di procedura penale, con relativi contrasti giurisprudenziali, con interventi della Corte costituzionale e del legislatore, con due diverse discipline transitorie nell'arco di un anno. Onde limitare tale eccessivo allargamento delle maglie della categoria dell'inutilizzabilità è previsto nel presente disegno di legge (articolo 6, comma 1) che l'inutilizzabilità sia riservata alle prove acquisite in violazione dei divieti stabiliti dalla legge «a garanzia di diritti costituzionalmente tutelati», essendo altrimenti sufficiente la tutela apprestata dal regime delle nullità.
Il capo IV, recante disposizioni in materia di circostanze, recidiva e prescrizione del reato, costituisce uno dei punti maggiormente qualificanti dell'intervento.
In tema di recidiva, la disciplina proposta intende muoversi secondo due direttrici fondamentali.
In primo luogo, si propone di superare il meccanismo del cosiddetto «doppio binario», introdotto con la legge 5 dicembre 2005, n. 251 (recante «Modifiche al codice penale e alla legge 26 luglio 1975, n. 354, in materia di attenuanti generiche, di recidiva, di giudizio di comparazione delle circostanze di reato per i recidivi, di usura e di prescrizione»), tra «recidivi» e delinquenti «primari».
Infatti la legge, nota come «ex Cirielli», ha introdotto una serie di rilevanti modifiche al sistema penale, incidendo sul regime delle attenuanti, della sospensione condizionale della pena, sull'importanza della recidiva anche per il godimento di benefìci penitenziari, sull'istituto della prescrizione dei reati, sulle modalità di adozione dei criteri di dosimetria della pena, imperniando il progetto sull'ottica della punizione «esemplare» per il «recidivo reiterato», destinatario non solo di pene assai più elevate, ma anche di periodi prescrizionali più lunghi e di un trattamento penitenziario molto più severo.
Contemporaneamente, sono stati ridotti gli spazi di discrezionalità del giudice, sostituiti in molti casi (concessione delle attenuanti, giudizio di bilanciamento delle circostanze, aggravamenti di pena per recidiva, applicazione di benefìci penitenziari) da automatismi che «ingessano» la valutazione in ordine alla gravità del fatto e alla personalità dell'imputato.
Il disegno di legge [articolo 7, comma 1, lettere a), b) e c); articoli 8 e 9] intende pertanto eliminare gli effetti negativi della legge n. 251 del 2005, con un intervento riequilibratore nel trattamento tra recidivi e no.
Nell'occasione, si è ritenuto di ridisegnare l'istituto stesso della recidiva; in particolare, si prevede [articolo 99, come riformulato dall'articolo 7, comma 1, lettera d), del disegno di legge] una recidiva che sia «obbligatoria» (per garantire a tutti i recidivi eguale trattamento, sganciandolo da scelte discrezionali), «specifica» (in base alla convinzione che recidivo «vero» sia solo chi ricade in un reato della stessa natura, e perché solo di fronte a un nuovo reato omogeneo si può dire che la pena sofferta si è rivelata insufficiente) e «temporanea» (perché l'astensione dal delitto per un certo numero di anni depone a favore della sufficienza della pena e del ravvedimento del reo, in modo simmetrico rispetto a quanto è previsto agli effetti della pena sospesa o del patteggiamento).
Quanto all'inquadramento sistematico, la recidiva è stata considerata come una circostanza comune in senso tecnico, che può essere assunta a oggetto del giudizio di comparazione tra circostanze, pur prevedendo un aumento massimo di un quarto, anziché di un terzo.
Si è tuttavia conservata, sia pure con le caratteristiche anzidette, la «recidiva reiterata», prevedendosi in questo caso un aumento di pena maggiore (fino alla
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metà). Per i reati connotati da un più grave indice di pericolosità (delitti indicati all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater, del codice di procedura penale), si prevede inoltre che l'aumento non possa essere inferiore ad un terzo e che la «temporaneità» sia riferita ad un arco di tempo di dieci anni.
Il secondo binario su cui corre il presente capo IV del disegno di legge è quello della ridefinizione dell'istituto della prescrizione.
Com'è noto, tale istituto esprime un limite temporale che lo Stato si dà preventivamente e legislativamente, in ordine all'esercizio della sua pretesa punitiva contro l'incolpato di un reato, sulla base di un duplice ordine di motivazioni: da un lato, l'«impallidire» del ricordo del delitto nella memoria sociale (aspetto più prettamente general-preventivo), dall'altro, la sofferenza dell'incolpato a fronte di un processo potenzialmente interminabile, con il rischio concreto che venga condannata una persona «diversa» rispetto a quella che ha commesso il fatto.
L'istituto è stato profondamente riformato dalla citata legge n. 251 del 2005, a seguito della quale la Corte costituzionale è stata investita di numerose questioni di legittimità, la prima delle quali, decisa il 23 ottobre 2006 (sentenza n. 393 del 2006), ha già condotto a stabilire l'illegittimità dell'articolo 10, comma 3, della legge, per la parte in cui la norma prevedeva che i nuovi termini di prescrizione non si applicassero ai processi già pendenti in primo grado ove vi fosse stata la dichiarazione di apertura del dibattimento.
Peraltro l'istituto, già prima dell'entrata in vigore della legge cosiddetta «ex Cirielli», necessitava di una profonda rimeditazione, che operasse un corretto bilanciamento tra l'affermazione della pretesa punitiva dello Stato e il diritto dell'imputato a un processo definito in tempi ragionevoli.
Il principio della durata ragionevole, consacrato dall'articolo 111 della Costituzione, deve dunque fungere da linea guida per il legislatore in due direzioni.
La prima è quella di provvedere a razionalizzare la sequenza procedurale, eliminando attività o garanzie superflue ovvero meramente formali, senza intaccare il nucleo di garanzie costitutive del modello di giusto processo.
La seconda è quella di predisporre soluzioni normative volte a disincentivare comportamenti delle parti strumentali al prolungamento del processo al di là della sua ragionevole durata e, in particolare, diretti ad ottenere la prescrizione. Si intende qui far riferimento alle impugnazioni dichiaratamente pretestuose, come, ad esempio, quelle relative a gran parte delle sentenze emesse in esito all'applicazione della pena ai sensi dell'articolo 444 del codice di procedura penale.
In tal senso sono state approntate norme che da un lato sono volte a disincentivare condotte dilatorie, dall'altro modificano gli istituti vigenti i quali, allo stato, costituiscono veicolo di inutili appesantimenti procedurali (innumerevoli reiterazioni delle notifiche di atti, rinvii eccetera).
Sotto il profilo sostanziale, ai fini del presente intervento, si ritiene che gli obiettivi di accelerazione del processo possano essere raggiunti anche attraverso una completa ridefinizione dell'istituto della prescrizione del reato, da mantenersi quale causa estintiva dello stesso.
Movendo in tale direzione, si è previsto quindi che la ridefinizione dell'istituto della prescrizione [articolo 7, comma 1, lettere da e) a i)] debba passare attraverso alcuni snodi fondamentali:
1) commisurare il tempo della prescrizione esclusivamente alla pena massima edittale (in continuità, sotto questo aspetto, con la modifica normativa del 2005, a sua volta mutuata dai progetti di riforma del codice penale Pagliaro e Nordio); non si è ritenuto di seguire la strada tracciata dall'originaria formulazione dell'articolo 157, che conteneva un'elencazione analitica dei tempi di prescrizione, modulata sulla base dello «scaglionamento» dei reati per fasce edittali: essa, oltre a peccare di un eccesso di tassatività, creava ingiustificate disparità nel caso
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concreto tra reati puniti edittalmente in modo differente.
Si è quindi preferito un rinvio alla pena edittale prevista per ciascun reato, aumentata della metà (aumento non contemplato dalla legge n. 251 del 2005). Quando per il reato la legge stabilisce congiuntamente o alternativamente la pena detentiva e la pena pecuniaria, come nell'attuale disciplina, per determinare il tempo necessario a prescrivere si ha riguardo soltanto alla pena detentiva;
2) escludere le circostanze dal computo, ad eccezione di quelle cosiddette «ad effetto o ad efficacia speciale». Per determinare il tempo necessario a prescrivere si stabilisce, infatti, che si abbia riguardo alla pena stabilita dalla legge per il reato consumato o tentato, senza tener conto della diminuzione per le circostanze attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti, salvo che per le circostanze ad effetto speciale (aumenti o diminuzioni di pena superiori a un terzo) e quelle per le quali la legge determina la pena in modo autonomo (cosiddette circostanze «ad efficacia speciale» o «indipendenti»), in quanto espressione di un disvalore superiore a quello che il legislatore ordinariamente configura nel prevedere il regime delle circostanze «ordinarie»;
3) prevedere, in ogni caso, un tetto minimo e massimo della prescrizione dei reati; si prevede infatti che la prescrizione non possa:
a) essere inferiore a sei anni per i delitti e a quattro per le contravvenzioni, ancorché puniti con la sola pena pecuniaria;
b) essere superiore a venti anni per i delitti, ad eccezione che per i delitti di maggiore gravità, per i quali il termine massimo è previsto nella misura di trenta anni. La prescrizione non estingue i reati per i quali la legge prevede la pena dell'ergastolo, anche come effetto dell'applicazione di circostanze aggravanti;
4) adattare la decorrenza del termine di prescrizione alla diversa natura delle sanzioni, prevedendo termini differenti non solo tra delitti e contravvenzioni, ma anche tra le sanzioni «originarie» del codice e sanzioni di specie diversa; si prevede pertanto che, quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria, si applica il termine di sei anni. Quest'ultima norma, rendendo tale termine omogeneo con il termine prescrizionale minimo dei delitti, supera i dubbi di costituzionalità sollevati, ad esempio, con riferimento alle sanzioni applicate dal giudice di pace ai sensi dell'articolo 52 del decreto legislativo n. 274 del 2000 (il caso è quello della irragionevole diversità di termini di prescrizione tra il «lavoro sostitutivo», per cui è attualmente previsto un termine triennale, e la pena pecuniaria, per cui il termine è ora fissato in sei anni), cui ora si dovrà applicare il nuovo termine;
5) recependo una giurisprudenza ormai consolidata della Suprema Corte (su cui, più diffusamente, si veda infra, in tema di impugnazioni), si è ritenuto che in caso di dichiarazione d'inammissibilità del ricorso per cassazione, il termine di prescrizione si debba ritenere sospeso al momento della pronuncia della sentenza di condanna di secondo grado (con esclusione, quindi, dei casi in cui ricorrente sia il pubblico ministero).
Parimenti, si ritiene che il termine prescrizionale non debba decorrere nei casi di sentenza di condanna nell'ipotesi di cosiddetta «doppia conforme». In questo caso, infatti, la pronuncia che contiene un doppio accertamento di merito in ordine alla responsabilità è sicuramente connotata da una stabilità tale da superare l'opportunità di mantenere l'operatività dell'istituto della prescrizione, senza peraltro comprimere in alcun modo i diritti sanciti dall'articolo 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 19 dicembre 1966 e ratificato dall'Italia ai sensi della legge 25 ottobre 1977, n. 881.
Tuttavia, nel caso in cui il ricorso per cassazione venga accolto, il tempo occorrente alla celebrazione del giudizio di
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cassazione verrà computato ai fini prescrizionali, così come quello necessario per la celebrazione dei successivi gradi di giudizio, ove presenti. In tal modo, l'imputato che faccia valere i propri diritti vittoriosamente non dovrà subire gli effetti negativi del decorso del tempo.
Per gli stessi motivi, a tale ipotesi viene parificata quella in cui la pronuncia di appello abbia riformato la sentenza di condanna di primo grado limitatamente alla specie o alla misura della pena, anche con riferimento al giudizio di comparazione tra circostanze, in quanto tale pronuncia non tocca l'affermazione di responsabilità.
Sono state ripristinate alcune norme della disciplina antecedente la «legge ex Cirielli», quali quella dei reati connessi e del reato continuato: in coerenza con la scelta di prevedere termini di prescrizione non più articolati per «scaglioni», ma in ragione della pena edittale di ciascuno di essi, appare necessario, in caso di contestazione congiunta, stabilire un dies a quo unico, onde evitare complicati calcoli, così come prevedere che, in caso di reati connessi, l'interruzione per taluni di essi abbia effetto anche per gli altri.
Si sono inoltre ridisegnate le cause di sospensione (articolo 159, secondo comma, del codice penale) e di interruzione della prescrizione (articolo 160 del codice penale).
Tra le seconde, è stato attribuito rilievo, risolvendo datati contrasti giurisprudenziali, all'interrogatorio delegato dal pubblico ministero e all'avviso di conclusione delle indagini preliminari.
Tra le prime, invece, sono state incluse tutte le ipotesi di «stasi processuali» riconducibili ad attività dell'imputato, e segnatamente:
1) presentazione di dichiarazione di ricusazione ai sensi dell'articolo 38 del codice di procedura penale, dalla data della presentazione della stessa fino a quella della comunicazione al giudice procedente del provvedimento che dichiara l'inammissibilità della medesima (per la «remissione» del processo la sospensione del termine di prescrizione è già prevista dall'articolo 47, comma 4, del codice di procedura penale);
2) concessione di termine a difesa in caso di rinuncia, revoca, incompatibilità e abbandono della difesa, per un periodo corrispondente al termine concesso;
3) rinnovazione, su richiesta dell'imputato, delle prove assunte in dibattimento, a seguito di mutamento della persona fisica del giudice, per tutto il tempo necessario alla rinnovazione. La disposizione non si applica ai coimputati cui non si riferisce la richiesta di rinnovazione, se viene disposta la separazione dei processi, né al caso in cui la nuova assunzione riguardi fatti e circostanze nuove (si veda anche quanto illustrato infra, con riferimento all'articolo 190-bis del codice di procedura penale, come novellato);
4) sospensione del processo del quale l'imputato non sia stato posto a conoscenza.
Parallelamente, si è previsto che in caso di remissione in termini di cui all'articolo 175, comma 2, del codice di procedura penale, per effetto della remissione non decorrano i termini di prescrizione del reato.
Si ritiene tuttavia necessario (simmetricamente a quanto previsto in tema di recidiva) mantenere un regime prescrizionale più rigido per i reati di cui all'articolo 51, commi 3-bis e 3-quater del codice di procedura penale. E infatti, la legge n. 251 del 2005, da un lato, ha previsto che il termine «ordinario» di prescrizione per tali reati fosse pari al doppio della pena edittale (articolo 157, sesto comma, del codice penale); dall'altro ha escluso un termine di prescrizione «massima» (articolo 161, secondo comma, del codice penale), circostanza che in dottrina aveva sollevato molteplici dubbi di incostituzionalità.
Nel testo proposto, in cui il termine di prescrizione «ordinario» viene aumentato della metà, si ritiene sufficiente prevedere per tali reati un congruo aumento dei termini di prescrizione massima, quantificato nella misura di trenta anni.
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Per meglio comprendere, in parte qua, la portata e gli effetti della novella, sembra opportuno rappresentare, seppur in modo esemplificativo, in forma sinottica il percorso evolutivo dei termini prescrizionali, evidenziando i termini «ordinari» e «massimi» previsti dalla disciplina codicistica precedente alla legge n. 251 del 2005, quelli successivi alla stessa e quelli risultanti dal presente disegno di legge.
Reato
| Prescrizione ante legge
n. 251 del 2005
| Prescrizione post legge
n. 251 del 2005
| Prescrizione secondo
il disegno di legge
|
416, sesto comma
| ordinaria: 15 anni
massima: 22,5 anni
| ordinaria: 30 anni
massima: senza limite
| ordinaria: 22,5 anni
massima: 30 anni
|
416-bis, primo comma
| ordinaria: 15 anni
massima: 22,5 anni
| ordinaria: 20 anni
massima: senza limite
| ordinaria: 15 anni
massima: 22,5 anni
|
600
| ordinaria: 15 anni
massima: 22,5 anni
| ordinaria: 40 anni
massima: senza limite
| ordinaria: 30 anni
massima: 30 anni
|
630
| ordinaria: 20 anni
massima: 30 anni
| ordinaria: 60 anni
massima: senza limite
| ordinaria: 30 anni
massima: 30 anni
|
Il capo V del disegno di legge contiene norme relative alle indagini preliminari e ai riti alternativi.
Un primo istituto che è apparso necessario modificare è quello della «proroga delle indagini preliminari» [articolo 406 del codice di procedura penale, come sostituito dall'articolo 10, comma 1, lettera b)].
Si prevede espressamente che la prima proroga non abbia una durata necessariamente semestrale, tempo che costituisce comunque il termine massimo della proroga, ma che possa venire calibrata dal giudice in relazione al tempo pronosticato per l'assunzione degli elementi di prova richiesti. In tal modo potrà essere accelerato il tempo delle indagini, che possono essere compiute in termini più brevi del periodo semestrale.
Si è ritenuto inoltre di dover intervenire anche sul procedimento di «archiviazione».
Si è in primo luogo ritenuto di abrogare il comma 1-bis dell'articolo 405 [articolo 10, comma 1, lettera a)]. Tale norma, secondo cui «il pubblico ministero, al termine delle indagini, formula richiesta di archiviazione quando la Corte di cassazione si è pronunciata in ordine alla insussistenza dei gravi indizi di colpevolezza, ai sensi dell'articolo 273, e non sono stati acquisiti, successivamente, ulteriori elementi a carico della persona sottoposta alle indagini», introdotta con la recente legge n. 46 del 2006, opera un accostamento improprio tra il giudicato cautelare e quello di merito, laddove anche una più approfondita rivalutazione di tutti gli elementi probatori acquisiti nel corso delle indagini preliminari potrebbe determinare una nuova valutazione della posizione dei singoli incolpati. L'abrogazione tende pertanto a restituire razionalità al sistema.
Il procedimento di archiviazione, inoltre, (articoli 409 e 410) è stato modificato nel modo che segue dall'articolo 10, comma 1, lettere c) e d):
1) viene eliminata l'udienza camerale in tutti i casi in cui il giudice indichi il compimento di ulteriori indagini al pubblico ministero che ha chiesto l'archiviazione;
2) quando il giudice ritenga di non accogliere la richiesta e di non disporre nuove investigazioni, l'udienza camerale si terrà solo per i procedimenti relativi a reati per i quali è prevista la celebrazione dell'udienza preliminare; negli altri casi, il giudice per le indagini preliminari, con propria ordinanza, richiederà al pubblico ministero di emettere il decreto di citazione a giudizio di cui all'articolo 552 del codice di procedura penale;
3) corrispondentemente, l'udienza, in caso di opposizione della persona offesa alla richiesta di archiviazione, verrà celebrata solo per i procedimenti relativi a reati per i quali è previsto lo svolgimento dell'udienza preliminare.
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All'esito dell'udienza (o con provvedimento emesso inaudita altera parte, per i reati a citazione diretta), il giudice potrà disporre nuove indagini e imporre al pubblico ministero di formulare l'imputazione ovvero di archiviare il procedimento.
A fini acceleratori, si è inoltre modificato l'articolo 413 [lettera e)], prevedendosi che in caso di richiesta di avocazione, se il procuratore generale non provvede in ordine alla stessa nel termine di trenta giorni, ovvero non formula le sue richieste nel termine di cui al comma 2, la persona sottoposta ad indagini o la persona offesa dal reato possono richiedere al giudice per le indagini preliminari di fissare un termine, non superiore a trenta giorni, per la formulazione da parte del pubblico ministero delle richieste di cui all'articolo 405, comma 1.
Si prevede, inoltre [lettere f), g), l) e m)], l'eliminazione dell'obbligo di inviare l'avviso previsto dall'articolo 415-bis in tutti i procedimenti ove l'imputato abbia altrimenti avuto notizia dell'esistenza di un procedimento penale a suo carico, ovvero sia stata notificata nei suoi confronti l'informazione di garanzia (articolo 369 del codice di procedura penale) o altro atto ad essa equipollente.
Questa modifica è volta all'eliminazione di un adempimento che spesso non apporta alcun effettivo vantaggio all'esercizio del diritto di difesa dell'indagato, ma che impone, viceversa, un notevole allungamento dei tempi procedimentali. L'istituto è stato, invece, mantenuto per tutte le ipotesi - non molto numerose, attesa la disciplina attualmente vigente - in cui l'indagato non abbia altrimenti avuto conoscenza del procedimento nei suoi confronti, nell'ottica di consentire in ogni caso a quest'ultimo un intervento per la propria difesa già in fase di indagini preliminari.
Le lettere g) e m), in conseguenza dell'eliminazione dell'avviso di cui all'articolo 415-bis, limitano le previsioni di nullità contenute negli articoli 416 e 552 ai casi in cui questo sia stato omesso nelle ipotesi in cui rimane obbligatorio il suo invio.
Le lettere h) e i), infine, modificano rispettivamente gli articoli 418 e 419 del codice di rito, ampliando a trenta giorni il termine per la comunicazione degli avvisi relativi all'udienza preliminare e a sessanta giorni il termine massimo consentito al giudice per la fissazione della medesima. Entrambe le suddette modifiche sono dettate dall'esigenza di consentire il pieno esercizio del diritto di difesa; è parso, infatti, opportuno ampliare il lasso di tempo riconosciuto all'imputato e al suo difensore per l'adeguata preparazione della propria difesa, anche in considerazione dell'eliminazione, nella maggior parte dei casi, dell'avviso di cui all'articolo 415-bis e della presa d'atto che la consistenza degli atti allegati alla richiesta di rinvio a giudizio in molti casi non consente un rapido disbrigo delle richieste di copia degli stessi da parte delle cancellerie.
Quanto ai riti alternativi, all'articolo 11, comma 1, lettere a) e b), si prevede che il giudizio abbreviato, per i procedimenti di competenza della corte di assise, sia celebrato dinanzi a quest'ultima. Infatti, è sembrato opportuno che processi relativi a reati di particolare gravità siano sottratti alla responsabilità di un unico giudice.
Quanto agli altri riti, al fine di incentivarne l'utilizzo, si prevede:
1) un prolungamento fino a trenta giorni della possibilità di chiedere il rito direttissimo fuori dai casi in cui consegua ad arresto in flagranza [lettera c)];
2) un prolungamento fino a sei mesi del termine per procedere con il rito immediato, che diventa quindi simmetrico a quello della durata ordinaria delle indagini preliminari [lettera d)];
3) l'espunzione della norma (le conseguenze della cui violazione erano peraltro di dubbia portata) che consente di chiedere il decreto penale di condanna solo entro sei mesi dall'iscrizione della notitia criminis; si è previsto, inoltre, un termine di trenta giorni entro cui il giudice deve decidere sulla richiesta di emissione del decreto penale di condanna [lettera e)];
4) sempre con riferimento al decreto penale di condanna, si prevede che, in
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caso di irreperibilità del condannato, anziché restituire gli atti al pubblico ministero, sia il giudice stesso ad emettere il decreto di giudizio immediato, simmetricamente a quanto avviene in caso di opposizione a decreto penale [lettera f)], eliminandosi in tal modo tempi di stasi processuale non controllati né dalle parti né dal giudice. Tale norma, in particolare, non sembra confliggere con l'obbligo di esercizio dell'azione penale, in quanto la volontà punitiva dello Stato è già stata espressa dal pubblico ministero con la richiesta di decreto penale di condanna, né con il diritto a chiedere riti alternativi, nei modi e nei limiti previsti dalla disciplina del rito immediato.
Si è inoltre ritenuto [lettere g) e h)] di abrogare il comma 4 dell'articolo 599 e il comma 2 dell'articolo 602, che disciplinano l'ipotesi di accordo tra le parti per l'accoglimento, in tutto o in parte, dei motivi di appello con rideterminazione della pena e rinuncia agli altri motivi. Tale istituto, pur essendo strutturalmente e funzionalmente diverso dall'istituto di cui all'articolo 444 del medesimo codice di procedura penale, differenza ribadita più volte dalla Corte di cassazione (si veda, ex plurimis, sez. I penale, sentenza 25 marzo - 17 aprile 1998, n. 1760), di fatto, in ragione delle condizioni di accesso previste per la sua applicazione, ha penalizzato l'interesse a ricorrere all'istituto del patteggiamento di primo grado, con ricadute assolutamente negative sull'obiettivo di deflazione del carico processuale legato proprio al ricorso ai riti alternativi in tale fase. Questo obiettivo, al contrario, può essere perseguito più efficacemente con la previsione che il patteggiamento possa essere richiesto, di regola, esclusivamente sino alla fase degli atti preliminari in modo da costituire realmente l'ultima possibilità per ottenere uno sconto di pena.
Al capo VI, poi, sono previste disposizioni in materia di misure cautelari. Nell'ottica di una riduzione del ricorso alle misure di custodia cautelare è stata ampliata a sei mesi la durata delle misure interdittive [articolo 12, comma 1, lettera b)]; viene prevista, inoltre, la cumulabilità delle stesse con le misure coercitive diverse dalla custodia cautelare in carcere [articolo 12, comma 1, lettera a)]. L'insufficienza di una misura interdittiva della durata di due mesi, a fronte di una procedura complessa, esercita, infatti, attualmente una spinta a richiedere le sopra menzionate - e ben più incisive - misure custodiali.
Con riferimento alle misure cautelari reali, è stato, poi, previsto di rafforzare l'alternatività tra la scelta del ricorso alla procedura di riesame o del ricorso per cassazione, ed è stata quindi esclusa la ricorribilità per cassazione avverso le decisioni del tribunale del riesame. Si dovrà, quindi, scegliere se chiedere un nuovo giudizio nel merito oppure se far valere delle questioni di legittimità; nel primo caso non sarà consentito il successivo ricorso per cassazione. Le garanzie previste dagli articoli 258, 262, 263, 319, 321, 322-bis e 324 del codice di procedura penale (gli ultimi cinque dei quali prevedono l'intervento necessario del giudice in sede di emissione, convalida, appello o riesame) e la riproponibilità delle istanze in ogni stato e grado del processo, possono ritenersi rimedi sufficienti a tutelare gli interessi dei soggetti interessati. Per le medesime ragioni è stata, altresì, esclusa la ricorribilità per cassazione avverso i provvedimenti emessi ai sensi dell'articolo 322-bis del codice di procedura penale a seguito di appello dell'indagato.
Il capo VII è dedicato alla rivisitazione delle norme del codice di rito in materia di contumacia, assenza, sospensione del processo e rinnovazione del dibattimento a seguito di mutamento della persona fisica del giudice.
Quanto al processo contumaciale, appare ormai improcrastinabile una profonda rivisitazione del processo in absentia.
Con la ratifica della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (CEDU) (legge 4 agosto 1955, n. 848), il nostro Paese ha assunto l'impegno di rispettarne i princìpi, fra cui quello imposto dall'articolo 6 (cosiddetto diritto ad un «processo equo»),
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paragrafo 3, lettere c) e d) della Convenzione.
La prima norma regola diritti fondamentali: quello a difendersi personalmente o tramite difensore di fiducia e quello di essere assistito, in caso contrario, gratuitamente da un difensore d'ufficio.
Il secondo principio codifica il diritto all'esame e al controesame dei testimoni a carico, ovvero, in altre parole, al contraddittorio.
Nel corso degli ultimi anni numerosi sono stati i casi di condanna da parte della Corte europea dei diritti dell'uomo (EDU) per violazione dei diritti anzidetti: queste sentenze impongono un «obbligo di conformazione» per gli Stati condannati ai sensi dell'articolo 46 della Convenzione (fra tutte, le sentenze rese nei processi Colozza c. Italia, 1985, Sejdovic c. Italia, 2004, Somogyi c. Italia, 2005).
Lo Stato italiano, nell'ultimo decennio, ha compiuto sforzi notevoli a livello normativo per adeguarsi ai princìpi dettati dalla CEDU. La legge n. 63 del 2001 ha radicalmente modificato gli istituti delle cosiddette «letture» di dichiarazioni rese nel corso delle indagini preliminari da parte di testimoni e imputati di reato connesso o collegato (articoli 500, 501, 513 e 197-bis del codice di procedura penale).
La costituzionalizzazione del principio del «giusto processo», operata dalla legge costituzionale n. 2 del 1999, ha comportato l'approvazione, in particolare, del decreto-legge n. 17 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 60 del 2005, il quale ha compiuto un ulteriore necessario adeguamento ai princìpi affermati dalla CEDU, mediante la rimodulazione dell'istituto della «rimessione in termini» per il caso di processo in absentia, svoltosi senza che l'imputato ne abbia avuto conoscenza.
Tuttavia, i problemi affrontati dai due provvedimenti citati non possono dirsi risolti.
Per quanto riguarda il regime giuridico delle «letture», pende dinanzi alla Corte costituzionale la questione di legittimità dell'articolo 630 del codice di procedura penale, disciplinante l'istituto della revisione, per un processo (cosiddetto «caso Dorigo») conclusosi con la condanna di un imputato formulata sulla base delle dichiarazioni non confermate di un pentito, utilizzate ai sensi dell'articolo 513 del codice di procedura penale nella sua originaria formulazione. La Corte di cassazione, a sua volta, ha annullato senza rinvio l'ordinanza emessa dalla corte d'assise di Udine, in funzione di giudice dell'esecuzione, con cui aveva rigettato la richiesta proposta dal procuratore della Repubblica presso il locale tribunale al fine di fare verificare la perdurante efficacia del titolo esecutivo a carico del condannato Dorigo Paolo e, di conseguenza, ha dichiarato l'inefficacia dell'ordine di carcerazione emesso nei confronti del condannato (Cassazione, sezione I penale, sentenza 1o dicembre 2006, Dorigo).
Così come recentemente la Corte EDU ha condannato lo Stato italiano per questioni relative alla sostanziale inapplicabilità dell'istituto della remissione in termini ad alcuni casi specifici, in considerazione dell'assenza di norme transitorie nel citato decreto-legge n. 17 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 60 del 2005.
In questa sede si intende intervenire sulla disciplina del processo in contumacia, rinviando a un prossimo intervento l'introduzione di una normativa ad hoc per quanto riguarda i rimedi da approntare a seguito di condanne emesse dalla Corte EDU per le violazioni alla relativa Convenzione e concernenti problematica legata alla sentenza Dorigo; ciò anche in considerazione della pendenza di un giudizio di fronte alla Corte costituzionale.
Per quanto riguarda il processo in absentia, occorre ricordare la profonda differenza che esiste tra gli ordinamenti di civil law, come l'Italia e i Paesi neo-latini, e i Paesi di common law, come la Gran Bretagna e gli altri Paesi anglofoni, cui ha in larga parte attinto lo Statuto della Corte EDU.
In Italia, tradizionalmente, si riconoscono due diritti all'imputato: quello di mentire nel corso del processo (conseguenza del principio nemo tenetur se detegere) e quello di non essere presente al processo
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(da cui il cosiddetto «processo contumaciale»).
I Paesi di common law invece non prevedono un processo in absentia dell'accusato, ritenendo assolutamente essenziale la possibilità per questo di dichiararsi «colpevole» o «innocente» (guilty/not guilty), con le inevitabili conseguenze che un'eventuale affermazione non veritiera comporta, tra le quali la più evidente è l'incriminazione per «spergiuro» o per «oltraggio alla Corte» (contempt of Court), cui spesso viene parificata l'ingiustificata assenza dall'aula.
La Corte EDU ritiene tale secondo assetto ordinamentale più aderente ai canoni del «giusto processo»: da qui la condanna dell'Italia in numerose occasioni per processi contumaciali celebrati anche nei confronti di soggetti che si sono volontariamente sottratti a provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Il modello anglosassone tuttavia presenta rigidità strutturali che non consentono un'automatica trasposizione, nel nostro sistema, degli strumenti processuali attraverso cui si evita il giudizio contumaciale, in particolare per ciò che riguarda l'affermazione del principio della presenza obbligatoria al processo da parte dell'imputato.
Se, pertanto, i tempi appaiono maturi per la definitiva soppressione dell'istituto della contumacia, occorre tuttavia trovare un giusto equilibrio tra le innovazioni conseguenti a tale scelta e il complessivo sistema processuale.
Se si pone l'attenzione ad organismi sovranazionali, si nota come lo Statuto della Corte penale internazionale, ad esempio, abbia scelto una soluzione di compromesso, prevedendosi, di norma, la presenza dell'imputato nell'udienza dinanzi alla Camera preliminare (sorta di udienza preliminare), salvo che egli abbia rinunciato al suo diritto ad essere presente o si sia dato alla fuga e al contempo sia stato fatto tutto quanto era ragionevole fare per trovarlo e per informarlo dell'udienza. Nel dibattimento, invece, è necessaria la presenza fisica dell'imputato.
In realtà, affinché possa ritenersi rispettata la regola del giusto processo, in caso di absentia, secondo la Corte EDU i modelli di disciplina configurabili sono sostanzialmente due: un rimedio «preventivo», consistente nella sospensione del procedimento in caso di assenza incolpevole; ovvero un rimedio «riparatorio», simile a quello introdotto con la riforma dell'articolo 175 del codice di rito.
Seguendo la strada che si è tracciata nella sentenza Colozza, anche nella pronunzia della Grande camera del 1o marzo 2006, nel menzionato caso Sejdovic, si afferma che non è compito della Corte EDU indicare le modalità e le forme di un eventuale nuovo processo, dopo quello celebrato in contumacia, essendo gli Stati liberi di scegliere i modi migliori per conformarsi alle sentenze della Corte e dunque realizzare per il ricorrente, per quanto possibile, una situazione equivalente a quella nella quale avrebbe potuto trovarsi se i suoi diritti non fossero stati lesi (paragrafi 126-127).
Nelle ultime sentenze (Somogyi, paragrafo 86; Sejdovic, paragrafo 47) la Corte EDU, affrontando il tema dell'obbligo dello Stato di adottare idonee misure individuali per conformarsi alla sua pronunzia (cosiddetto «obbligo di restitutio in integrum», nascente dall'articolo 46 della CEDU, a seguito di condanna dello Stato per il suo sistema processuale in materia di giudizio in contumacia), utilizza proprio i due citati percorsi alternativi: riapertura del termine per proporre impugnazione o sospensione del processo. Lo Stato è dunque libero di conformarsi alla sentenza della Corte EDU, adottando una delle due misure alternativamente indicate dalla Corte stessa.
Altro tema su cui spesso si rileva una certa ambiguità è la nozione stessa di «conoscenza». Da più parti, in dottrina, si sostiene l'ipotesi di ancorare la conoscenza all'effettiva consegna, a mani proprie, di atti qualificati del procedimento (generalmente l'atto introduttivo del giudizio). Altri ritengono sufficiente una più generica conoscenza del «procedimento» in sè, indipendentemente
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dai singoli atti secondo cui lo stesso viene modulato.
Sul punto la Corte di cassazione (sentenza n. 15903 del 2006, Aziz) ha di recente affermato che «l'accoglimento dell'istanza di restituzione in termini per proporre impugnazione della sentenza pronunciata in contumacia, in base alla novella dell'articolo 175 del codice di procedura penale introdotta con il decreto-legge n. 17 del 2005, convertito, con modificazioni, nella legge n. 60 del 2005, è condizionata all'assenza della prova positiva della effettività della conoscenza del procedimento o del provvedimento, e quindi anche la sola conoscenza del procedimento impedisce all'imputato di avvalersi della restituzione in termini, pur se la sentenza sia stata poi notificata con i previsti meccanismi della mera conoscenza "legale"» (nel caso di specie il soggetto era stato sottoposto a misura cautelare), in tal modo fissando un chiaro principio di interpretazione della norma. La particolare delicatezza della tematica e la variegata gamma di aspetti interpretativi che essa presenta impongono dunque un approccio concreto ma prudente, moderno e al tempo stesso accortamente calibrato: il nostro ordinamento conosce infatti fenomeni criminosi pressoché sconosciuti ad altri ordinamenti dell'Europa continentale, che impongono particolare attenzione nel calibrare le scelte, bilanciando i vari beni costituzionali coinvolti.
Per questo è stato privilegiato un modello «sincretico» di disciplina dell'istituto, che combini rimedi preventivi e restitutori, conoscenza effettiva e presunzioni juris tantum, conoscenza del procedimento e di atti del medesimo, in relazione alla specificità dei casi di volta in volta disciplinati.
Il nostro attuale sistema processuale collega a determinate situazioni delle «presunzioni di conoscenza» degli atti del procedimento, quali quelle di cui agli articoli 159, 161, comma 4, 165 e 169 del codice di procedura penale, che determinano, di frequente, la celebrazione di processo in cui il banco dell'imputato è vuoto, ma non per sua scelta.
La recente pronuncia della Corte di cassazione sul cosiddetto «caso Somogyi» (sezione I penale, sentenza n. 32678 del 2006), forse proprio perché consapevole dei rischi di una adesione acritica ai princìpi espressi dalla Corte EDU, sembra tentare un approccio diverso.
In tale occasione la Corte, nell'evidenziare l'importanza dell'introduzione nel codice del comma 8-bis dell'articolo 157 del codice di rito, ha sottolineato come esso, in sostanza, codifichi il principio secondo cui, in caso di nomina di difensore «di fiducia», l'ordinamento formula una prognosi presuntiva (juris tantum) di conoscenza degli atti in capo all'imputato.
Ma da questa accentuazione della rilevanza del rapporto fiduciario discenderebbe, secondo la Corte, un corrispondente indebolimento delle presunzioni di conoscenza legate alle notifiche, effettuate ai sensi degli articoli 159, 161, comma 4, 165 e 169 a mani del difensore «d'ufficio». Esse sarebbero, pertanto, «di per sé inidonee a dimostrare l'effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento» salvo che si dimostri «che il difensore d'ufficio è riuscito a rintracciare il proprio assistito e a instaurare un effettivo rapporto professionale con lui».
La Corte pertanto, ritiene che l'assetto italiano non possa essere sconvolto totalmente, e che il sistema delle «presunzioni legali», sia pure juris tantum, deve essere mantenuto, seppur ricalibrandolo. Propone quindi di mantenere una presunzione di conoscenza degli atti in caso di nomina fiduciaria, posto che si deve intendere ragionevolmente che il difensore e l'assistito intrattengano contatti, mentre in caso di nomina d'ufficio tale presunzione non può sussistere.
Tale impostazione è stata sostanzialmente accolta nella proposta di modifica legislativa con alcune precisazioni. Infatti, sembra necessario distinguere l'ipotesi in cui l'assistito sia a conoscenza della nomina di un difensore d'ufficio da quella in cui la certezza di tale conoscenza non esista.
Ad esempio, diversa è la situazione dell'indagato cui viene notificato un decreto
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di sequestro che contenga anche le generalità del difensore d'ufficio, dal quella del soggetto (il caso classico è quello del cittadino straniero senza fissa dimora che vende copie contraffatte di opere tutelate dal diritto d'autore) che subisca un sequestro di iniziativa da parte della polizia giudiziaria, in cui la nomina del difensore d'ufficio avvenga in sede di convalida, non notificata per irreperibilità.
Solo in questo secondo caso si ritiene che non possa sussistere la presunzione di conoscenza degli atti, dovendosi ritenere invece, nel caso precedente, che incomba sull'indagato il dovere di diligenza di prendere contatto con il difensore e di tenersi informato sullo sviluppo del procedimento.
Si ritiene pertanto che, solo con riferimento alla seconda ipotesi, il giudice del dibattimento debba disporre che la notifica venga effettuata con modalità tali da conseguire l'effettiva conoscenza del processo e che, in caso di esito negativo, questo debba essere sospeso, e con esso i termini di prescrizione del reato.
In primo luogo, si ritiene necessario, come linea tendenziale, che i processi penali non si possano celebrare senza l'effettiva garanzia che l'imputato abbia avuto conoscenza almeno dell'inizio degli stessi. Tale approccio (in linea con le sentenze e con lo Statuto della Corte EDU) concerne la sola fase «processuale» in senso stretto, senza riferimento alle attività prodromiche alla stessa (indagini preliminari e udienza preliminare); nel rispetto delle statuizioni in esame, quindi, le modifiche proposte mantengono la possibilità di procedere alle indagini preliminari e all'udienza preliminare anche nei confronti di un indagato irreperibile ovvero nei cui confronti le notifiche vengano effettuate presso il difensore a norma degli articoli 159, comma 2, 161, comma 4, 165, comma 1, e 169, che disciplinano ipotesi di conoscenza «legale» o «formale».
Quanto alla fase dell'udienza preliminare, si è pertanto ritenuto di eliminare l'istituto della contumacia, sostituendolo con quello della mera «assenza», per tutti i casi in cui, compiuta la regolare notificazione del decreto di fissazione, l'imputato è o sarebbe dovuto essere presente [articolo 13, comma 1, lettere da d) a g)].
Di converso, nella disciplina del processo in senso stretto, si prevede [articolo 13, comma 1, lettera h), che introduce gli articoli da 484-bis a 484-quinquies del codice di rito] che nei suddetti casi, al momento della verifica della regolare costituzione delle parti, il giudice debba anche verificare se la conoscenza del procedimento da parte dell'imputato sia effettiva e non meramente formale. All'esito delle verifiche in questione sono possibili due alternative:
1) se viene accertata la conoscenza effettiva da parte dell'imputato, può senz'altro avere luogo la celebrazione del processo;
2) nel caso contrario, il giudice (sempre che non debba essere pronunciata sentenza di proscioglimento o di non doversi procedere) può normalmente disporre la «sospensione del processo», la cui disciplina è sostanzialmente modulata su quella degli articoli 70 e seguenti in materia di incapacità a partecipare al processo, ed esperisce periodicamente nuove ricerche dell'imputato.
Solo ove venga successivamente raggiunta una ragionevole certezza in ordine alla consapevolezza dell'imputato il processo potrà riprendere il proprio corso secondo le regole ordinarie.
Corollario di tale nuova impostazione è che il corso della prescrizione rimane sospeso per tutta la durata della sospensione del processo, ai sensi del novellato articolo 159 del codice penale.
Tale principio conosce tuttavia alcune significative limitazioni, che si pongono in linea con i princìpi affermati nella sentenza Somogyi. Vengono infatti previste alcune specifiche ipotesi, oltre al caso della presenza dell'imputato all'udienza dibattimentale, in cui il giudice dovrà ex lege ritenere l'imputato a conoscenza del processo:
a) se l'imputato nel corso del procedimento ha nominato un difensore di fiducia, anche in caso di successiva revoca;
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b) se l'imputato, nel corso del procedimento, è stato arrestato, fermato o sottoposto a misura cautelare;
c) in ogni altro caso in cui dagli atti emerga la prova che l'imputato sia a conoscenza del fatto che si procede nei suoi confronti.
Appare, infatti, evidente in entrambi i casi di cui alle lettere a) e b) che le condotte indicate risultino intrinsecamente significative della precitata consapevolezza; la lettera c) è, poi, atta a ricomprendere ogni altra ipotesi indicativa della consapevolezza in questione.
Accanto a tali ipotesi, il disegno di legge ne disciplina una quarta, ossia quella in cui l'imputato si è volontariamente sottratto alla conoscenza del processo o di atti del medesimo. In linea con l'orientamento della giurisprudenza della Corte EDU, si ritiene infatti che, qualora emerga dagli atti che l'imputato si è volontariamente sottratto al processo, esercitando il suo diritto a non parteciparvi, questo debba seguire il suo corso. Le ipotesi, a titolo meramente esemplificativo, possono essere varie: l'imputato che si è dato volontariamente alla fuga, o che si è allontanato dal territorio nazionale, ovvero che ha utilizzato travisamenti o documenti di identità contraffatti o alterati, eccetera.
La soluzione proposta tende a risolvere il problema relativo al fatto se vi sia equivalenza, sulla base dei parametri della Corte EDU, tra la rinuncia a comparire e il sottrarsi alla giustizia, con la fuga o con altri mezzi. Secondo la risoluzione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa n. 11 del 1975, tale ipotesi, ove dimostrata dagli organi statuali, non può dar luogo ad alcun diritto dell'imputato ad essere nuovamente processato. Le pronunzie della Corte EDU hanno spesso lasciato sul punto notevoli margini di ambiguità. Così a volte la Corte ha sostenuto che «occorre che le risorse e le garanzie offerte dal diritto interno si rivelino effettive, ove risulti che l'imputato non ha né rinunciato a comparire e a difendersi né a sottrarsi volontariamente alla giustizia» (Medenica c. Svizzera, paragrafo 55; Somogyi c. Italia, paragrafo 67), prefigurando quindi una possibile soluzione in base alla quale non occorra riaprire il processo allorquando l'imputato si trovi in una situazione di assenza inescusabile o provocata da circostanze alle quali egli ha in gran parte contribuito, come nell'ipotesi in cui egli si sia appunto volontariamente sottratto alla conoscenza del procedimento rendendosi irreperibile a tale scopo; altre volte, come nella sentenza Sejdovic, invece, le conclusioni sono contraddittorie, come emerge dall'analisi dei paragrafi 31 e 39, in cui nel primo si esclude la necessità di un nuovo processo nell'ipotesi di sottrazione volontaria alla giustizia, mentre nel secondo si afferma il diritto alla riapertura del processo in ogni circostanza in cui la sentenza sia stata resa in contumacia.
Con la pronunzia della Grande camera del 1o marzo 2006, sempre nel caso Sejdovic, la Corte EDU ha tentato di riordinare la materia e di fissare un precedente stabile e vincolante. È stato infatti affermato che alcune circostanze possono essere tali da dimostrare, senza possibilità di equivoco, che l'accusato conosceva l'esistenza di un procedimento contro di lui e ha mostrato l'intenzione di non prendervi parte o di sottrarvisi. Tali fatti sono stati esemplificativamente indicati nei seguenti: a) allorquando l'accusato dichiara pubblicamente o per iscritto di volersi disinteressare delle richieste di convocazione, di cui egli ha conoscenza attraverso fonti non ufficiali (tale precisazione costituisce un tentativo di attenuare la regola generale secondo cui la comunicazione del procedimento deve essere veicolata attraverso un atto giuridico rispondente a precise condizioni formali e sostanziali); b) quando l'accusato sfugge ad un tentativo di arresto (vedi anche Iavarazzo c. Italia del 4 dicembre 2001); c) nell'ipotesi in cui siano portati a conoscenza delle autorità degli elementi di prova che dimostrino inequivocabilmente che l'accusato conosceva l'esistenza del procedimento aperto contro di lui e delle relative accuse (paragrafo 99). Viceversa, la semplice circostanza, presente nel caso all'esame della
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Corte, che l'accusato era assente dal suo luogo abituale di residenza, proprio in concomitanza con l'evento delittuoso e con la raccolta di elementi probatori a suo carico, non può, per la Corte, costituire un elemento obiettivo e inequivoco, da cui dedurre l'intenzione dell'accusato di sottrarsi alla giustizia (paragrafi 100-105). Analizzando poi l'articolo 175, comma 2, del codice di procedura penale, nella sua vecchia formulazione, la Grande camera ha sottolineato come la sua formulazione apparisse ambigua, al punto tale che poteva essere interpretato anche nel senso, non ammesso dalla giurisprudenza europea (anche perché in contrasto con il principio di presunzione d'innocenza), che fosse l'accusato a dover dare la dimostrazione di non essersi voluto sottrarre alla giustizia (paragrafo 103).
Nel disegno di legge, la previsione della volontaria sottrazione agli atti del procedimento o alla conoscenza del medesimo lascerà al giudice, in concreto, la delibazione in ordine a tale requisito.
Il sistema così delineato, come è evidente, integra elementi fattuali e presuntivi in modo equilibrato. La stessa Corte EDU, del resto (sentenza resa nel ricorso n. 58572 del 2000, causa Morabito c. Italia), ha avuto modo di confermare espressamente che «ogni sistema giuridico contiene delle presunzioni di fatto o di diritto» e che «la Convenzione non vi si oppone in via di principio».
Si prevede inoltre [articolo 17, che modifica l'articolo 3, comma 1, del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 14 novembre 2002, n. 313, inserendovi la lettera i-bis)], che il provvedimento di sospensione del processo sia annotato nel casellario giudiziario, al fine di facilitare il reperimento dell'imputato da parte delle Forze di polizia, e che esso sia cancellato in caso di ripresa del processo.
Allo scopo si è ritenuto anche opportuno integrare la Banca dati delle Forze di polizia, di cui all'articolo 8 della legge 1o aprile 1981, n. 121, attribuendo all'autorità giudiziaria che ha emesso l'ordinanza di sospensione l'onere di comunicare alla predetta Banca dati (oggi denominata SID) la medesima ordinanza di sospensione e il decreto di citazione a giudizio (si è a tale fine introdotto, con l'articolo 14 del disegno di legge, l'articolo 143-bis delle norme di attuazione).
A tal fine l'autorità giudiziaria si avvarrà della collaborazione delle locali sezioni di polizia giudiziaria. Il regolamento previsto dall'articolo 31, infine, provvederà a precisare le modalità e i termini delle comunicazioni relative ai provvedimenti in questione.
Si è, in ogni caso, modificato il disposto dell'articolo 349 del codice di procedura penale, con l'introduzione del comma 4-bis ai sensi del quale tutti gli ufficiali e agenti di polizia giudiziaria a competenza generale (quindi non solo carabinieri, polizia e guardia di finanza, ma anche vigili urbani, guardie forestali eccetera), che, nel corso di controlli occasionali, dovessero riscontrare la presenza di soggetti da ricercare, potranno notificare nei loro confronti il decreto di citazione e l'ordinanza di sospensione; ove, comunque, non sia possibile effettuare immediatamente la notifica, la polizia giudiziaria informerà l'imputato della pendenza di un procedimento penale a suo carico, del numero di registro generale relativo al medesimo nonché dei capi d'imputazione e dell'autorità giudiziaria dinanzi alla quale lo stesso viene celebrato, invitandolo a recarsi entro i successivi cinque giorni presso i propri uffici per ricevere la notifica e per dichiarare o eleggere domicilio. Il termine di cinque giorni per la presentazione negli uffici di polizia giudiziaria è stato indicato tenendo conto di ogni eventualità (ad esempio, la lontananza dal luogo di emissione dell'ordinanza) che potrebbe impedire la rapida trasmissione degli atti da notificare. Il successivo comma 4-ter, poi, prevede l'immediata comunicazione all'autorità procedente dell'avvenuta notifica e dell'eventuale mancata presentazione dell'imputato presso gli uffici di polizia giudiziaria.
Il quadro normativo così delineato rende del tutto superflua la previgente disciplina della contumacia; si è, infatti,
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previsto che il processo potrà svolgersi soltanto nei confronti di un imputato consapevole, nel senso, sopra precisato, che può liberamente scegliere di essere o meno presente all'udienza. La sua eventuale assenza al procedimento viene ad essere ora qualificata dalle necessarie verifiche imposte al giudice in sede di controllo della regolare citazione delle parti; è stato, pertanto, eliminato il richiamo contenuto nell'articolo 484, comma 2-bis, alle norme sulla verifica della regolare costituzione delle parti dettate in tema di udienza preliminare, e sono stati introdotti gli articoli 484-ter e 484-quater in tema, rispettivamente, di impedimento dell'imputato e del difensore e di assenza dell'imputato.
Del pari, viene ridisegnata la disciplina dell'assenza e dell'allontanamento volontario: nel primo caso, infatti, si prevede che se l'imputato, presente ad un'udienza, non partecipa alle successive, è considerato «presente non comparso» (articolo 484-quater, comma 4).
Corrispondentemente, sono state riformulate tutte le norme del codice relative alle comunicazioni delle sentenze (già) contumaciali e alle impugnazioni, prevedendosi la comunicazione dell'estratto e attribuendosi la facoltà di proporre impugnazione solo all'imputato dichiarato «assente» in dibattimento (articoli 419, 429, 552, 513, 520, 548, 585 e 603), operandosi negli altri casi un mero intervento di «drafting normativo», mediante sostituzione del termine «contumace» con il termine «assente».
Ovviamente, è stato necessario riformulare il comma 2 dell'articolo 175, come sostituito dal citato decreto-legge n. 17 del 2005, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 60 del 2005, coordinandolo con la nuova disciplina. Si tratta di un intervento in cui le parole « sentenza contumaciale» sono state sostituite con quelle di «sentenza emessa in assenza dell'imputato».
Sono quindi state apportate le modifiche necessarie ad armonizzare la disciplina del processo dinanzi al giudice di pace (articolo 15) e quella relativa alla responsabilità delle persone giuridiche (articolo 16) alle innovazioni proposte.
Tuttavia, non si può ignorare la circostanza che il processo italiano, a differenza di quello di altri Paesi, riconosce e disciplina il cosiddetto simultaneus processus nei confronti di molti imputati, ovvero con molti testimoni o persone offese.
L'Italia, inoltre, conosce fenomeni di criminalità organizzata ignoti, nelle loro dimensioni, ad altri Paesi, che hanno innescato il fenomeno della celebrazione dei cosiddetti «maxi-processi», caratterizzati da una grande quantità di imputati o di persone offese. Il gravissimo pericolo arrecato dalle associazioni a delinquere di stampo mafioso e da quelle di matrice terroristica per il funzionamento stesso delle istituzioni democratiche impone perciò di prevedere strumenti processuali in grado di consentire (se necessario) una pronta definizione dei processi in questi casi.
Si è introdotta pertanto, in queste ipotesi, la possibilità per il giudice di non applicare l'istituto della sospensione del processo; in tali casi si è previsto che sia possibile, in presenza di situazioni particolari, celebrare il processo in absentia. Tale scelta sarà consentita quando, in considerazione della natura e della gravità del reato contestato, ovvero del numero dei reati contestati, delle persone offese o dei testimoni, ovvero ancora dell'esigenza di garantire la genuinità e la completezza della prova, la sospensione possa arrecare grave pregiudizio all'accertamento dei fatti per cui si procede (articolo 484-bis, comma 2, primo periodo).
In considerazione della natura derogatoria della norma, è stato previsto che il giudice, nel disporre che si proceda in assenza dell'imputato, emetta un'ordinanza «specificamente» motivata in ordine alla sussistenza di motivi ostativi alla sospensione.
Nella più recente giurisprudenza della Corte costituzionale si è reiteratamente affermato che per valutare la «ragionevolezza» di scelte normative occorre considerare se «la norma presenti una intrinseca incoerenza, contraddittorietà o illogicità
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rispetto al contesto normativo preesistente» (sentenza n. 450 del 2000) o rispetto alla «complessiva finalità perseguita dal legislatore» (sentenza n. 416 del 2000). La Corte, quindi, ha considerato assieme al canone della ragionevolezza, quali ulteriori criteri del giudizio di legittimità, quelli del «bilanciamento degli interessi costituzionalmente protetti» e delle «compatibilità finanziarie o di sistema».
Il presente disegno di legge, con la possibilità di derogare al principio della sospensione del processo in absentia, in base al principio secondo cui il processo penale deve comunque tendere alla «ricerca della verità» (Corte costituzionale, sentenza n. 255 del 1992), opera una comparazione bilanciata tra interessi di rango costituzionale, prevedendo che, in casi particolari, l'obbligo di accertamento dei fatti possa prevalere su quello della presenza dell'imputato.
In tutti i casi in cui si proceda in absentia incolpevole, ovvero in cui il meccanismo di presunzioni di cui all'articolo 484-bis si sia rivelato oggettivamente insufficiente, si ricorre al meccanismo restitutorio dell'articolo 175, comma 2, come riformulato. In tal modo, il diritto dell'imputato alla presenza nel processo viene garantito, sia pure in un momento differito.
Tale meccanismo è pienamente conforme alla giurisprudenza della Corte EDU. Essa, infatti, in una pronuncia in tema di misure di prevenzione (ricorso n. 58572 del 2000, causa Morabito c. Italia, citata), ove la valutazione prognostica è basata sul presupposto della mera «pericolosità», ha confermato la legittimità di norme atte a contrastare efficacemente le organizzazioni criminali che, per la loro forza (nel caso di specie: economica) siano in grado di mettere «in discussione il primato del diritto nello Stato», e che la discrezionalità degli Stati nel disciplinare gli istituti giuridici deve essere valutata «nel quadro di una politica anticrimine finalizzata a combattere il fenomeno della grande criminalità», pur all'interno di un quadro normativo che rispetti i diritti fondamentali dell'individuo quali riconosciuti dalla CEDU.
Secondo la Corte, quindi, lo Stato ha il diritto/dovere di attivare e di calibrare la sua risposta punitiva in ragione della gravità dell'attentato alle istituzioni derivante dalle condotte criminose, purché non faccia venir meno il nucleo essenziale dei diritti previsti dall'articolo 6 della CEDU.
Nel caso di specie, il diritto al contraddittorio è sicuramente tutelato: se l'imputato si presenta in corso di causa, ha diritto di chiedere l'ammissione delle prove a discarico; se la sentenza è già stata emessa, ha diritto di essere rimesso in termini per proporre impugnazione.
Vi è tuttavia una limitazione: le prove raccolte a suo carico, nel contraddittorio con il difensore, sia pure d'ufficio, saranno liberamente valutate dal giudice nei confronti del (già) assente, assieme a quelle raccolte in presenza dello stesso, secondo il modello accolto in altri ordinamenti europei.
Nell'ambito del medesimo capo è stato poi riformulato anche l'articolo 420-ter del codice di rito; all'articolo 13, comma 1, lettera e), è stata, infatti, semplificata la disciplina degli «avvisi» all'imputato assente per legittimo impedimento, caso fortuito o forza maggiore, prevedendo la necessità degli stessi (e mai di notifiche) soltanto nel caso in cui questi risulti assistito da un difensore d'ufficio ovvero da un difensore di fiducia non presente in aula. Ben può farsi in questo caso carico al predetto difensore, infatti, dell'onere di avvisare il proprio assistito della data di rinvio, senza che anche tale incombente gravi sull'amministrazione della giustizia. Parallelamente la medesima disciplina è stata introdotta anche con riferimento al dibattimento (articolo 484-ter).
Le presenti norme si propongono inoltre l'intento di risolvere l'annosa questione relativa alla rinnovazione del dibattimento in caso di mutamento della persona fisica del giudice, causa, com'è noto, dell'estinzione di moltissimi processi già in primo grado per intervenuta prescrizione.
La Corte costituzionale, con sentenza n. 17 del 1994, aveva già avuto modo di affermare che la pregressa fase dibattimentale
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conserva carattere di attività legittimamente compiuta, per cui la medesima entra nel patrimonio conoscitivo del successivo giudice attraverso lo strumento della lettura (successivamente alla rinnovazione dell'istruzione dibattimentale) ai sensi dell'articolo 511, comma 2 del codice di procedura penale.
La Corte di cassazione a sezioni unite (sentenza n. 2 del 1999, Iannasso) ha stabilito il principio secondo cui «nel caso di rinnovazione del dibattimento a causa del mutamento della persona del giudice monocratico o della composizione del giudice collegiale, la testimonianza raccolta dal primo giudice non è utilizzabile per la decisione mediante semplice lettura, senza ripetere l'esame del dichiarante, quando questo possa avere luogo e sia stato richiesto da una delle parti».
Tale interpretazione, sia pure autorevole, è stata criticata in dottrina in quanto presentava alcune aporie, che possono sintetizzarsi nel modo che segue:
1) se la mancanza del «consenso delle parti» cagiona una nullità - assoluta e insanabile a norma del comma 2 dell'articolo 179 del codice di procedura penale - essa non potrebbe essere ontologicamente superata dal semplice consenso delle parti;
2) l'articolo 33-nonies - secondo il quale «l'inosservanza delle disposizioni sulla composizione collegiale o monocratica del tribunale non determina (...) l'inutilizzabilità delle prove già acquisite», smentisce che ogni caso di mutamento della persona fisica del giudice si traduca automaticamente in una inutilizzabilità degli atti assunti in precedenza;
3) vi sarebbe un obbligo, incontestato, di riattivare la procedura di cui agli articoli 492, 493 e 495 del codice di procedura penale senza che, inspiegabilmente, il giudice possa esercitare i suoi poteri di valutazione sulla ammissibilità della prova, riconosciutigli e impostigli dagli articoli 190 e 190-bis del medesimo codice;
4) con l'articolo 190-bis del codice di procedura penale il legislatore è andato oltre la manifesta superfluità e irrilevanza di cui all'articolo 190 del codice di procedura penale, limitando le possibilità di «rinnovazione» della prova già assunta in contraddittorio, ma creando tuttavia un «doppio binario» per i soli reati di cui all'articolo 51, comma 3-bis, dello stesso codice;
5) l'inciso «a meno che l'esame non abbia luogo», che chiude il capoverso dell'articolo 511, comma 2, del codice di procedura penale, potrebbe in astratto essere riferito al caso in cui, nell'esercizio da parte del giudice dei poteri di cui agli articoli 190 e 190-bis del codice di procedura penale, l'esame non abbia storicamente luogo, in quanto esso non attiene al profilo delle modalità di introduzione della prova nel processo, bensì al «costituzionalmente garantito, diverso profilo del diritto al contraddittorio nella sua formazione dibattimentale»;
6) l' «oralità» non costituisce canone inderogabile e unica fonte di legittimità dell'atto probatorio, «in un contesto sistematico nel quale, invece, non solo manca alcuna norma che consenta una tale conclusione ma, addirittura, vi sono plurime, inequivoche ed insuperabili indicazioni del carattere solo tendenziale dell'oralità: basti pensare innanzitutto all'istituto dell'incidente probatorio, ma poi, specialmente (...) all'intero giudizio di appello».
Il Giudice delle leggi, con ordinanza n. 399 del 2001 (confermata dalle successive ordinanze n. 59 del 2002 e n. 73 del 2003), ha chiarito ulteriormente i termini della questione, stabilendo che:
1) la disciplina sull'ammissione della prova (articoli 493 e 495 del codice di procedura penale) va mantenuta distinta da quella sulle modalità di assunzione dei mezzi di prova;
2) la regola, contenuta nell'articolo 511, comma 2, del codice di procedura penale, che prescrive che sia data lettura di verbali di dichiarazioni solo dopo l'esame del dichiarante, non priva il giudice
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del potere di delibazione in ordine all'ammissione delle prove;
3) il principio della «ragionevole durata» del processo, desumibile dagli articoli 3, 25, 101 e 111 della Costituzione, deve essere bilanciato con la tutela di altri interessi costituzionalmente garantiti, quale quello dell'«immediatezza», connaturale alla stessa essenza del processo accusatorio.
Ciò premesso, in ordine alla distinzione tra la fase di «ammissione» delle prove e quella della loro «assunzione», può rivisitarsi il principio affermato con la sentenza Iannasso, partendo dall'affermazione secondo cui: « è invero da escludere (all'infuori dell'ipotesi eccezionale di cui all'articolo 190-bis del codice di procedura penale) che, quando l'ammissione della prova sia nuovamente richiesta, il giudice che la ammetta ai sensi degli articoli 190 e 495 abbia il potere di disporre la lettura delle dichiarazioni raccolte nel dibattimento precedente, alla quale non consentano entrambe le parti, senza previo riesame del dichiarante».
L'affermazione limiterebbe l'obbligo di rinnovare l'assunzione delle prove in capo al giudice solo ove egli le abbia nuovamente ammesse: le prove assunte nel precedente dibattimento e non riammesse dal giudice sarebbero pienamente utilizzabili ai fini della decisione mediante il meccanismo della semplice «lettura» ai sensi dell'articolo 511 del codice di procedura penale.
Tale interpretazione, che presuppone la distinzione tra le due fasi di ammissione/assunzione delle prove, da un lato, e nullità della sentenza/inutilizzabilità delle prove raccolte in precedenza, dall'altro, riporta coerenza nel sistema, dando copertura costituzionale ai princìpi di «oralità» e di «immediatezza» alla luce del canone costituzionale del «giusto processo», codificato dall'articolo 111 della Costituzione.
Esso, così come l'articolo 6 della CEDU, esprime in modo chiaro due princìpi:
1) la necessità che la prova sia assunta dinanzi a un «giudice terzo e imparziale»;
2) la necessità che la prova sia assunta nel «contraddittorio delle parti», o, in altre parole, che l'imputato abbia avuto la possibilità di controesaminare il dichiarante «a carico».
Entrambi i princìpi trovano piena soddisfazione nel caso di rinnovazione del dibattimento.
Nella delicata materia dell'assunzione delle prove, il «consenso» dell'imputato assume rilievo nella Carta costituzionale solo nei casi in cui la prova non venga assunta in contraddittorio (articolo 111, quinto comma, della Costituzione). Attualmente, dunque, nell'ancorare al consenso delle parti l'assunzione o meno delle prove nel dibattimento rinnovato vi è una lettura del dettato costituzionale che va oltre i princìpi ivi espressi.
«Oralità» e «immediatezza», pertanto, che si sogliono far discendere direttamente dalla natura accusatoria del nostro sistema penale e, indirettamente, dallo stesso canone di «giusto processo», non ne costituiscono un portato espresso e, del resto, conoscono evidenti eccezioni, mai revocate in dubbio dalla Corte costituzionale: l'incidente probatorio, volto ad anticipare, tramite una sorta di «finestra di giurisdizione», l'assunzione della prova, per garantirne la genuinità ed evitarne la dispersione; l'appello, intera fase processuale eminentemente «cartolare», eppure mai giudicato incostituzionale nel suo complesso.
L'articolo 111 della Costituzione codifica inoltre un terzo principio: quello della «ragionevole durata del processo», da cui si suole far discendere i princìpi, pure espressamente non contemplati, della «non dispersione della prova» e dell'«efficienza del processo».
Ipotizzando, come sembra possibile, una copertura costituzionale di tutti i suddetti princìpi, appare necessario prevedere un equilibrato bilanciamento degli stessi in ragione del principio del «giusto processo», secondo gli insegnamenti della Corte costituzionale, in base ai quali occorre sempre procedere, ove possibile, ad un «bilanciamento degli interessi costituzionalmente
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protetti» (vedi, per tutte, la sentenza n. 509 del 2000).
Si ritiene a tal fine che immediatezza e oralità, a fronte di prove già legittimamente assunte nel contraddittorio, devono cedere il passo ad esigenze di celerità del processo (che tutto il presente intervento normativo tende ad assicurare), a meno che tale «subvalenza» non infici la serenità di giudizio del giudice ovvero mini alla radice quella finalità di «ricerca della verità», reiteratamente affermata dalla Corte costituzionale (sentenze nn. 363 del 1991, 432 del 1992 e 280 del 1995).
D'altra parte, anche con la recente ordinanza di inammissibilità n. 67 del 2007, la Corte costituzionale ha ribadito, da un lato, la costituzionalità del sistema delle «letture»; dall'altro, la necessità di contemperare i princìpi costituzionali di «non dispersione dei mezzi di prova» e di «ragionevole durata del processo» con quello dell'«immediatezza» del dibattimento.
Questa conclusione non contraddice l'affermazione secondo la quale «partecipa» al processo solo il giudice che abbia in qualche modo «rinnovato» il dibattimento, in quanto tale rinnovazione può avvenire, se la prova è già stata legittimamente assunta, mediante la semplice lettura, che in tal caso diventa essa stessa, in base al meccanismo di individuazione delle prove da utilizzare a fine della decisione, una «particolare forma di rinnovazione» dell'assunzione della prova.
In concreto, si rimettono [articolo 493-bis, introdotto dall'articolo 13, comma 1, lettera l)] in termini le parti per richiedere le prove già chieste ai sensi degli articoli 468 e 493, comma 2, ma si lascia al giudice la facoltà di decidere sia in ordine alla loro rilevanza che alla loro superfluità. Sulla richiesta il giudice provvede con ordinanza ai sensi degli articoli 190, 190-bis e 495.
Si prevede altresì che nel giudizio abbreviato o in caso di applicazione di pena su richiesta delle parti, le prove assunte nel dibattimento precedente sono pienamente utilizzabili ai fini della decisione, risolvendo una dibattuta questione giurisprudenziale in linea con l'ottica che sottende tutto l'intervento normativo.
Per le prove ammesse [articolo 190-bis, come riformulato integralmente dall'articolo 13, comma 1, lettera b), in modo da essere utilizzato per tutti i processi] si prevede che quando è richiesto l'esame di un testimone, di un coimputato o di una delle persone indicate nell'articolo 210 e queste abbiano già reso dichiarazioni in sede di incidente probatorio o in dibattimento nel contraddittorio con la persona nei cui confronti le dichiarazioni medesime saranno utilizzate, ovvero dichiarazioni i cui verbali sono stati acquisiti a norma dell'articolo 238, l'esame è ammesso solo nei casi seguenti:
a) quando la prova richiesta riguarda fatti o circostanze diversi da quelli oggetto delle precedenti dichiarazioni, sopravvenuti o conosciuti in epoca successiva all'assunzione della prova. È evidente in tal caso la piena reviviscenza del diritto alla prova per circostanze sopravvenute, perché altrimenti sarebbe vulnerato il diritto alla prova, soprattutto a discarico; d'altro canto, non appare neppure lecito consentire che il mutamento del giudice possa, per sé solo, «rimettere in termini» le parti che abbiano mal condotto un esame dibattimentale;
b) quando il giudice lo ritiene utile o necessario ai fini della decisione, anche su richiesta motivata delle parti sulla base di specifiche esigenze.
I verbali delle prove assunte in precedenza, che il giudice non ammette nuovamente ai sensi del comma 1, restano inseriti nel fascicolo del dibattimento e si applica l'articolo 511, comma 2-bis.
Il citato comma 2-bis, introdotto dalla lettera n), numero 1), chiude il sistema, prevedendo che «è sempre consentita la lettura dei verbali di dichiarazioni raccolte in sede di incidente probatorio, dei verbali di prove di diverso processo acquisiti ai sensi dell'articolo 238, delle prove assunte in assenza dell'imputato nonché dei verbali di prove assunte dinanzi a un giudice
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diverso, sia a seguito di declaratoria di incompetenza che in caso di mutamento della persona fisica del giudice».
La norma in esame, statuendo espressamente che la lettura delle dichiarazioni legittimamente rese in dibattimento è comunque disposta anche in caso di rinnovazione dello stesso, rende chiaro che le eventuali richieste di nuova escussione del teste non possono mai influire sul regime di lettura e utilizzabilità delle dichiarazioni precedentemente rese dallo stesso, proprio perché assunte in un contesto in cui era pienamente garantito il diritto di difesa. Tale linea interpretativa si pone in termini di assoluta compatibilità con il canone dell'articolo 111 della Costituzione, che fa riferimento al «consenso» quale chiave di recupero di materiale probatorio altrimenti inutilizzabile, solo in caso di previa assunzione dello stesso in assenza di contraddittorio.
Infine [lettera n), numero 2)], si sostituisce il comma 5 dell'articolo 511, prevedendosi per tutte le prove assunte, a contenuto dichiarativo o meno, la possibilità di dare lettura, anziché indicare per decisione, solo in caso di serio disaccordo sul contenuto.
Si abroga, da ultimo, l'articolo 511-bis [lettera s)], il cui contenuto è stato inserito nella disciplina generale delle letture.
Il capo VIII (articoli da 18 a 20), prevede molteplici norme di razionalizzazione del processo penale. All'articolo 18 sono state introdotte talune modifiche a disposizioni relative alle impugnazioni. A tal proposito appare necessario premettere che il presente disegno di legge non tocca in modo sistematico l'istituto delle impugnazioni, oggetto della controversa riforma di cui alla legge n. 46 del 2006, attinta dalla censura di illegittimità costituzionale con la recentissima sentenza della Corte costituzionale n. 26 del 24 gennaio-6 febbraio 2007.
L'omessa trattazione del tema in questa sede costituisce frutto di una scelta dettata dalla consapevolezza che proprio la notevolissima importanza della questione renda necessario un intervento approfondito e articolato, frutto di uno studio ponderato e in grado di raccogliere la condivisione più ampia possibile.
Con le modifiche apportate si sono dunque operati interventi marginali, ma in grado comunque di apportare una maggiore efficienza alla macchina giudiziaria.
Con la modifica introdotta all'articolo 18, comma 1, lettera d), si è in primo luogo ritenuto di dover disciplinare diversamente la fattispecie della cosiddetta «inammissibilità originaria» del ricorso per cassazione. Con tale locuzione si intendono le cause di inammissibilità esterne al contenuto dell'atto impugnato, quali la carenza di legittimazione, la non impugnabilità del provvedimento, la rinuncia al ricorso eccetera.
A tal fine occorre evidenziare come nel solo 2005 la sezione VII della Corte di cassazione, competente a decidere in ordine ai ricorsi palesemente inammissibili, abbia pronunciato oltre 20.000 sentenze di inammissibilità, cui vanno aggiunte quelle dichiarate dalle altre sezioni in esito all'ordinario procedimento di cassazione. In questi casi, la necessità di comunicare avvisi e citazioni determina un dispendio enorme di risorse a carico della Corte.
È stato ritenuto dunque opportuno rendere più snello il procedimento di inammissibilità in tali casi, prevedendo una procedura de plano per la declaratoria di inammissibilità, ossia senza le formalità previste dall'attuale articolo 610, comma 1, del codice di procedura penale.
Invero, l'unica tutela necessaria appare quella volta ad evitare errori di fatto da parte della Corte, quale, ad esempio, quello relativo al computo del termine per proporre impugnazione: ma, come rilevato dalla più accorta dottrina, tale tutela è già assicurata nell'ordinamento dall'articolo 625-bis, introdotto dalla legge n. 128 del 2001, che consente il «ricorso straordinario per errore materiale o di fatto».
La soluzione proposta appare coerente, sotto il profilo logico e sistematico. La sezione VI penale della Suprema Corte, con sentenza emessa in data 5 aprile 2006 (deposito 3 maggio 2006), n. 15184, ha recentemente confermato che «la inammissibilità originaria del ricorso per cassazione
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per manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione, e pertanto preclude anche la possibilità di applicare la legge più favorevole, in linea con la costante giurisprudenza di questa Corte anche a sezioni unite (Cass., sez. un., 25 febbraio 2004, Chiasserini; 22 novembre 2000, De Luca; Cass., sez. IV, 27 febbraio 2001, n. 8200)». Orientamento, questo, che trova autorevole precedente nella pronunzia della sez. IV, n. 34618 del 2003, in cui si afferma che l'inammissibilità del ricorso per cassazione, anche se dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi, «non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione» e preclude, pertanto, alla Corte di rilevare e dichiarare le cause di non punibilità a norma dell'articolo 129 del codice di procedura penale e, in particolare, la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso.
Se, pertanto, non si costituisce un valido rapporto processuale, non sussistono neppure i presupposti per una pronuncia che debba essere resa in contraddittorio.
Sul piano concreto, si è dunque ritenuto di disciplinare l'istituto dell'inammissibilità «originaria» (recuperando anche i contenuti di progetti di legge presentati nel corso della XIV legislatura), introducendo un filtro preventivo in grado di eliminare immediatamente i ricorsi originariamente inammissibili.
È stato previsto quindi l'inserimento del comma 1-ter all'articolo 610 del codice di procedura penale, secondo cui, «sentito il procuratore generale, l'inammissibilità è dichiarata senza le formalità previste dal comma 1 (che prevede la fissazione di udienza in camera di consiglio, con avviso alle parti) quando il ricorso è stato proposto dopo la scadenza del termine stabilito o da chi non ha diritto all'impugnazione ovvero contro un provvedimento non impugnabile o quando il ricorso è assolutamente privo dei motivi di impugnazione o non è sottoscritto da un difensore iscritto nell'albo speciale della Corte di cassazione o vi è rinunzia al ricorso».
La stessa procedura è stata prevista nelle ipotesi in cui il ricorso sia stato proposto contro una sentenza di applicazione della pena su richiesta delle parti ed esso debba essere dichiarato inammissibile.
Con l'articolo 18, comma 1, lettere b), c) ed e), è stata, inoltre, eliminata la facoltà per l'imputato di presentare personalmente ricorso per cassazione, imponendo allo stesso di ricorrere necessariamente per la sua redazione a un difensore iscritto all'albo dei patrocinanti in cassazione; il carattere estremamente tecnico dell'impugnazione di legittimità, infatti, è di fatto risultato difficilmente contemperabile con il riconoscimento di tale facoltà, con la conseguenza che la Suprema Corte è stata impegnata a decidere su ricorsi nella quasi totalità dei casi pretestuosi e privi di ogni giuridico fondamento. La previsione in questione, imponendo l'intervento di un professionista per l'accesso al giudizio di legittimità, comporterà la necessità di una consapevole preventiva valutazione della fondatezza dell'istanza e dell'interesse effettivo a proporla, con conseguente ipotizzabile deflazione del relativo carico processuale.
La lettera f), invece, ripristina il testo dell'articolo 629 del codice di procedura penale, preesistente alle modifiche ad esso apportate con la legge 12 giugno 2003, n. 134, escludendo dalle sentenze oggetto di revisione quelle di applicazione della pena emesse ai sensi dell'articolo 444 del codice. E, invero, la Corte di cassazione, precedentemente alla modifica normativa, si era già espressa per l'inammissibilità del ricorso a tale istituto con riferimento alle sentenze di patteggiamento, quale necessario corollario della natura della sentenza in questione, non equiparabile a una pronuncia di condanna se non nella parte relativa all'applicazione della pena. Secondo la Corte sarebbe, infatti, impossibile riaprire un giudizio ordinario quando il processo si è svolto e concluso senza una plena cognitio e sarebbe improponibile un conflitto tra prove ed elementi che per definizione normativa tali non sono, posto che l'applicazione della pena è disposta, ai
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sensi dell'articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale, «sulla base degli atti» (Cassazione, sezioni unite, 25 marzo 1998, n. 6, Giangrasso). La modifica normativa proposta, quindi, in piena consonanza con la giurisprudenza citata, intende ripristinare il corretto equilibrio tra le tipologie di pronunce previste dal codice di rito e i rimedi proposti avverso le stesse, escludendo per le ragioni sopra espresse che avverso le sentenze di patteggiamento possa operare l'istituto della revisione.
Per razionalizzare l'attività dei soggetti processuali, si è infine ritenuto [articolo 18, comma 1, lettera g)] di modificare il comma 4 dell'articolo 666 del codice di procedura penale, prevedendo che la presenza del pubblico ministero all'incidente di esecuzione sia solo facoltativa.
L'articolo 19, comma 1, lettera a), modifica l'articolo 129 delle norme di attuazione. La modifica si rende opportuna, anzitutto, per affinare e potenziare i rapporti di collaborazione tra il pubblico ministero penale e il pubblico ministero contabile, onde consentire il tempestivo accertamento degli illeciti erariali.
A seguito delle modifiche proposte il pubblico ministero dovrà, pertanto, inoltrare un'adeguata informativa al procuratore regionale presso la Corte dei conti (e non più al procuratore generale presso la stessa Corte) anche nei casi di richiesta di archiviazione del procedimento.
Inoltre, il richiamo esplicito alla disposizione di cui all'articolo 117 del codice di procedura penale consente al procuratore regionale presso la Corte dei conti competente di richiedere al pubblico ministero penale atti o informazioni scritte sul loro contenuto, anche quando abbia appreso aliunde l'esistenza di procedimenti penali per reati che abbiano cagionato un danno per l'erario. Sarà, poi, l'autorità giudiziaria competente a disporre la trasmissione degli atti richiesti, ovvero a rigettare la richiesta, sulla base delle esigenze investigative da tutelare.
Non vi è dubbio che la modifica apportata, assicurando la necessaria comunicazione anche in caso di archiviazione del procedimento penale, consente alle procure regionali della Corte dei conti di adottare le misure di cautela previste dalla legge. Sul punto va osservato, infatti, che già con l'articolo 5, comma 2, del decreto-legge n. 453 del 1993, convertito, con modificazioni, dalla legge n. 19 del 1994, il legislatore aveva richiamato in modo espresso per il pubblico ministero contabile la possibilità di agire per ottenere il sequestro conservativo, anche ante causam, dei beni del presunto responsabile di un danno erariale. Tale possibilità è stata confermata ed estesa dall'articolo 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005 (legge finanziaria per il 2006), che attribuisce al pubblico ministero contabile la facoltà di esercitare, oltre l'azione erariale, anche quella revocatoria e surrogatoria e di richiedere il sequestro conservativo, a garanzia dell'effettività della condanna.
Alle lettere b) e c), sono previste modifiche alle norme di attuazione, mediante l'introduzione dell'articolo 144-bis e l'abrogazione del comma 2 dell'articolo 145.
La prima norma intende disciplinare in modo compiuto la programmazione e la disciplina delle udienze dibattimentali.
Com'è noto, la durata del singolo processo è difficilmente determinabile a priori, dal momento che in esso possono verificarsi eventi del tutto indipendenti dall'impegno del giudice o dall'efficienza dell'organizzazione giudiziaria (assenze dei testi, ritardi dei periti, impegni concomitanti dei difensori eccetera). Per garantire una ragionevole celerità dei processi saranno perciò importanti lo snellimento e la semplificazione delle procedure oltre che congrue dotazioni di personale e di mezzi degli uffici giudiziari, interventi ai quali si sta attualmente lavorando da parte del Ministero della giustizia; occorre, altresì, una più analitica disciplina per governare i tempi del processo, anche sotto il profilo organizzativo.
La complessità dei profili concernenti l'organizzazione delle udienze penali, principalmente in dipendenza della diversità dei riti, rende necessario prevedere uno schema di gestione delle udienze penali
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flessibile e adattabile alle diverse esigenze.
La finalità che si persegue attraverso la predisposizione di un programma dell'udienza, o del processo, è dunque quella di ottimizzare le risorse date, realizzando il miglior servizio possibile, tenuto conto del personale, dei mezzi, della logistica e delle dotazioni disponibili. Attraverso la predisposizione di alcune regole che, nel rispetto delle garanzie delle parti, si confrontino con un sistema organizzato di svolgimento dell'attività processuale, si tende a realizzare un recupero di efficienza, mirando a raggiungere il giusto punto di equilibrio tra l'obiettivo della rapidità e dell'accelerazione dei tempi dell'udienza e quello dell'accertamento dei fatti, nel rigoroso rispetto delle regole processuali, ma anche secondo il principio costituzionale della ragionevole durata del processo, presente nella nostra Costituzione e più volte richiamato nella giurisprudenza della Corte EDU.
A ciascun soggetto che interviene nel processo è richiesto, perciò, quell'impegno di tempo che è necessario e doveroso pretendere in relazione alla funzione assolta, evitando, quindi, inutili e dispendiose presenze in udienza.
Pertanto si ritiene che anche un'adeguata programmazione delle attività di udienza, se inserita in un quadro normativo volto alla complessiva razionalizzazione delle risorse impiegate nel processo penale con la modifica delle norme processuali, potrà risultare determinante ai fini che ispirano il presente disegno di legge.
In tale ottica, viene compiutamente disciplinata la prima udienza di comparizione attraverso la previsione di una cosiddetta «udienza filtro», prevedendosi, come peraltro avviene già nella prassi di numerosi tribunali, che essa sia dedicata alla sola verifica della regolare costituzione delle parti, alla discussione delle questioni preliminari, alle formalità di apertura del dibattimento, all'ammissione delle prove, alla definizione dei giudizi ai sensi degli articoli 444 e seguenti del codice o nelle forme del rito abbreviato, purché non condizionato all'assunzione di prove dichiarative, ovvero ad ogni altra ipotesi in cui debba dichiararsi l'estinzione o l'improcedibilità del reato.
Nel corso di tale udienza, il giudice stabilisce con ordinanza il calendario delle successive udienze e autorizza le parti alla citazione dei propri testi, periti o consulenti alle date stabilite nel calendario in questione. La lettura di quest'ultimo in udienza sostituisce gli avvisi di rinvio per tutti coloro che sono o che devono considerarsi presenti. In ossequio al principio di lealtà processuale, si prevede quindi che, ai fini della formulazione del calendario, i difensori debbano comunicare al giudice l'eventuale sussistenza di concomitanti impegni professionali. In tal caso essi, tenuto conto dell'attività istruttoria da svolgere alla data indicata, potranno manifestare al giudice la propria disponibilità a nominare un sostituto.
La persona offesa eventualmente comparsa alla prima udienza potrà essere sentita, salvo che il processo sia di particolare complessità, solo ove detenuta, ovvero proveniente da regione diversa da quella in cui si celebra il processo, e in ogni caso quando il giudice lo ritenga assolutamente necessario.
La norma prevede che il giudice, nel formare il ruolo e nell'effettiva trattazione dei processi, assegni precedenza assoluta ai giudizi con imputati detenuti, anche per reato diverso da quello per cui si procede, nonché, anche su segnalazione delle parti, ai giudizi per i quali si siano verificate nullità, difetti di notificazione o accadimenti processuali che possono determinare l'immediata definizione o il rinvio del processo.
Il giudice, inoltre, nel programmare le udienze, dovrà assicurare che il processo si concluda in tempi compatibili con il principio costituzionale della sua ragionevole durata. In particolare, i processi dovranno tendenzialmente essere celebrati entro limiti contenuti in due anni e sei mesi per il giudizio di primo grado, in un anno e sei mesi per il giudizio in grado di appello e in un anno per il giudizio dinanzi alla Corte di cassazione.
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Tali termini potranno tuttavia essere superati per i processi connotati da particolare complessità in ragione dei reati contestati, del numero degli imputati, delle persone offese o dei testimoni ovvero della particolare complessità delle questioni tecnico-giuridiche da affrontare (come nel caso in cui si debba procedere ad una rogatoria internazionale ovvero all'esecuzione di una richiesta di estradizione, attività espressamente escluse dai sopra descritti limiti dal comma 7 dell'articolo 144-bis). Tale ultima previsione trova conferma nella stessa giurisprudenza della Corte EDU, la quale, con una recente sentenza, ha stabilito che nel computo del termine non si tiene conto di tutto il tempo necessario ad ottenere l'estradizione dell'imputato detenuto all'estero.
Da ultimo, è espressamente abrogata la disposizione del comma 2 dell'articolo 145 in ordine alla citazione dei testi all'udienza, ormai superata dal disposto dell'articolo 144-bis.
L'articolo 20, infine, è volto a incentivare con una norma transitoria l'applicazione della pena su richiesta delle parti per tutti i procedimenti relativi a reati che rientrino nelle previsioni della legge 31 luglio 2006, n. 241; la legge in questione ha, infatti, concesso indulto per tutti i reati (ad eccezione di quelli oggettivamente esclusi ai sensi dell'articolo 2) commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nel limite di tre anni.
Tale legge ha inteso porre rimedio al grave problema del sovraffollamento carcerario, ma non è stata ovviamente in grado di risolvere il problema della congestione degli uffici giudiziari, versante su cui più facilmente può dispiegare i suoi effetti un provvedimento di amnistia.
A seguito dell'approvazione dell'indulto, tuttavia, risultano molti i procedimenti, pendenti in fase di indagini preliminari ovvero in primo grado, in esito ai quali la pena applicata sarà coperta, in tutto o in parte, da indulto.
L'intervento proposto prevede che, per i procedimenti in fase di indagini preliminari, il pubblico ministero debba vagliare la possibilità di accedere al rito alternativo, e che nei casi in cui reputi possibile prevedere che la pena finale sia contenuta nei limiti della citata legge n. 241 del 2006, acquisito il consenso da parte dell'indagato, formuli richiesta al giudice per le indagini preliminari di applicazione della pena ai sensi degli articoli 444 e seguenti del codice di procedura penale. Il giudice per le indagini preliminari, dopo aver verificato la sussistenza di tutti i presupposti (articolo 444, comma 2, del codice di procedura penale), emetterà sentenza di patteggiamento, dichiarando condonata la pena nel limite di tre anni.
La novità più rilevante, che permetterà di conseguire effetti deflativi importanti, consiste tuttavia nella riapertura dei termini per formulare richiesta di patteggiamento anche per i procedimenti di primo grado che si trovino già in fase dibattimentale o durante il giudizio abbreviato, per evitare che sia portata a termine un'attività istruttoria, spesso anche complessa, per processi che con ogni probabilità si concluderanno con l'irrogazione di una pena condonata.
L'intervento proposto - la cui disciplina ricalca sostanzialmente la previsione dell'articolo 5 della legge 12 giugno 2003, n. 134, relativa al cosiddetto «patteggiamento allargato» - consente pertanto alle parti di chiedere congiuntamente al giudice di primo grado, alla prima udienza utile successiva alla data di entrata in vigore della legge, l'applicazione di pena, nei termini dianzi evidenziati per la fase delle indagini preliminari, con evidenti effetti benefici sul carico di lavoro che grava sugli uffici giudicanti di prime cure.
Non si è ritenuto invece di estendere tale possibilità al giudizio d'appello, in primo luogo per la minore quantità di processi pendenti in secondo grado e quindi per i minori effetti deflativi da attendersi; in secondo luogo in quanto, a differenza dell'ipotesi di patteggiamento in primo grado, nel processo d'appello esiste già una sentenza, potenzialmente contenente anche statuizioni civili, che è apparso opportuno garantire nella loro stabilità.
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Parimenti, non si è ritenuto di estendere tale «ultrattività» del patteggiamento ai processi pendenti in cassazione.
La natura di giudice di mera legittimità della Suprema Corte, infatti, se non contrasta con l'obbligo del giudice di verificare la correttezza della qualificazione giuridica attribuita al fatto e con la verifica della sussistenza di cause di non doversi procedere ai sensi dell'articolo 129 del codice di procedura penale, si ritiene al contrario incompatibile con la necessità di formulare un giudizio originario di adeguatezza della pena concordata rispetto al fatto.
Al capo IX viene proposta la revisione del sistema delle sanzioni processuali.
L'articolo 21, comma 1, prevede, alle lettere da a) a d), l'adeguamento delle sanzioni correlate alle declaratorie di inammissibilità di ricorsi o istanze nell'intento di omogeneizzare i minimi delle stesse nonché di aumentare i relativi massimi allo scopo di rendere concreto l'effetto deterrente delle relative previsioni.
Il medesimo articolo, alla lettera e), modificando l'articolo 664, comma 1, del codice di procedura penale, prevede, quindi, che i relativi importi continuino a confluire presso la cassa delle ammende, ma nella sola misura del 40 per cento, mentre il residuo 60 per cento dovrà essere versato in conto entrate dello Stato per essere successivamente riassegnato ad apposita unità previsionale di base dello stato di previsione del Ministero della giustizia; tale operazione renderà, pertanto, dette somme disponibili per le esigenze complessive della giustizia e non del solo Dipartimento dell'Amministrazione penitenziaria - come avviene in base alla normativa attualmente vigente - al soddisfacimento delle cui esigenze viene comunque ancora riservata circa la metà dei relativi introiti.
L'articolo 22, infine, dispone una modifica all'articolo 208 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002; la norma in questione ha, difatti, assegnato alle cancellerie delle corti di appello il compito di curare il recupero dei crediti derivanti da tutte le sentenze di condanna definitive emesse dalla stessa corte di appello, con il conseguente aumento del carico di lavoro ivi insistente (fino a triplicarlo) e l'altrettanto ovvio ritardo nella riscossione dei crediti, i quali nelle more possono anche giungere a prescriversi. Come da più parti sollecitato, quindi, si è proposto un ritorno al previgente criterio di riparto della competenza in materia, fondato sull'abbinamento fra ufficio di recupero dei crediti e giudice dell'esecuzione presso il medesimo ufficio giudiziario, già sancito dall'articolo 181 delle norme di attuazione.
Al capo X sono previste disposizioni in materia di pubblicazione delle sentenze e ragguaglio tra pene pecuniarie e pene detentive; l'articolo 23, comma 1, lettera a), in particolare, prevede la rivisitazione delle modalità di pubblicazione delle sentenze, consentendo la pubblicazione delle stesse sul sito internet del Ministero della giustizia nei casi di minore gravità; ciò al fine di realizzare risparmi di spesa.
La lettera b) del medesimo comma prevede, poi, la modifica dell'articolo 135 del codice penale, elevando a euro 75 la somma ivi prevista per il ragguaglio con le pene detentive per adeguare il criterio proporzionale al tempo trascorso e consentendo, pertanto, maggiori introiti a parità di richieste di sostituzione della pena detentiva ai sensi dell'articolo 53 della legge n. 689 del 1981.
Il successivo articolo 24 adegua, poi, anche l'articolo 536 del codice di procedura penale alle modifiche in tema di pubblicazione delle sentenze apportate dall'articolo 23 e prima esaminate.
L'articolo 25 prevede che la pubblicazione delle sentenze relative ai delitti di cui alla legge 22 aprile 1941, n. 633, segua la disciplina generale di cui all'articolo 36 del codice penale, come modificato dal presente disegno di legge, ovvero sia effettuata esclusivamente sul sito internet del Ministero della giustizia nei casi di minore gravità; la pubblicazione in questione è stata, infatti, introdotta dalla legge n. 248 del 2000; la ragione storica di tale previsione riposa, stando ai lavori preparatori,
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nell'esigenza di realizzare campagne di pubblica informazione «dirette a sensibilizzare i cittadini sulla gravità e pericolosità sociale della pirateria in materia di opere dell'ingegno».
Il bilancio della modifica normativa non è tuttavia incoraggiante. Com'è noto, la stragrande maggioranza dei procedimenti penali per le ipotesi di contraffazione di opere protette dal diritto d'autore vede quali imputati stranieri immigrati o cittadini italiani appartenenti a ceti altamente disagiati.
Nel primo caso, sono frequentemente ignote persino le reali generalità degli imputati, cui solo i riscontri foto-dattiloscopici sono in grado di fornire un'identità, almeno formale.
A fronte del quadro dianzi delineato, occorre analizzare i costi della campagna di sensibilizzazione nei confronti dell'opinione pubblica (peraltro attuata dagli enti di categoria con altri e più efficaci mezzi di propaganda informativa).
Le spese del processo penale, incluse quelle di pubblicazione della sentenza (fatta salva l'ipotesi di cui all'articolo 694, comma 1, del codice di procedura penale, estranea al presente disegno di legge) sono anticipate dall'erario e recuperate a carico del condannato (articolo 4 del citato testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 115 del 2002).
Da una nota pervenuta dalla procura generale della corte d'appello di Roma risulta che la spesa sostenuta da questo solo distretto per la pubblicazione delle sentenze di condanna ai sensi dell'articolo 171-ter, comma 4, della legge n. 633 del 1941 ammonta a quasi 300.000 euro nell'ultimo biennio.
Di tale importo, praticamente nulla è stato recuperato a carico dei condannati.
Preso atto, pertanto, dell'attuale sproporzione tra gli obiettivi (difficilmente conseguibili) perseguiti dalla normativa in parola e gli altissimi costi economici precedentemente evidenziati, nonché dell'ormai universale diffusione dell'accesso a internet nel nostro Paese, appare logico procedere, come nella proposta in oggetto, alla rivisitazione di tale pena accessoria nei termini sopra evidenziati.
Il capo XI è volto a introdurre nel codice penale un istituto che ha dato un esito estremamente positivo nel processo minorile: la sospensione del processo con messa alla prova.
Le statistiche a disposizione del Ministero della giustizia mostrano come, nel periodo 1999-2004, l'istituto abbia conosciuto un aumento applicativo considerevole, passando dai 788 provvedimenti del 1992 ai 2.173 del 2004.
Anni
| Provvedimenti di applicazione articolo 28
| Numeri indice
(base mobile)
| Numeri indice
(base fissa=1992)
|
1992
| 788
| -
| 100,0
|
1993
| 845
| 107,2
| 107,2
|
1994
| 826
| 97,8
| 104,8
|
1995
| 740
| 89,6
| 93,9
|
1996
| 938
| 126,8
| 119,0
|
1997
| 1.114
| 118,8
| 141,4
|
1998
| 1.249
| 112,1
| 158,5
|
1999
| 1.420
| 113,7
| 180,3
|
2000
| 1.471
| 103,5
| 186,7
|
2001
| 1.711
| 116,3
| 217,1
|
2002
| 1.817
| 106,2
| 230,6
|
2003
| 1.856
| 102,1
| 235,5
|
2004
| 2.173
| 117,1
| 275,8
|
Pag. 34
Ancora più sorprendenti risultano le statistiche relative all'esito della prova, che ha superato l'80 per cento di esiti positivi.
Contenuto
della sentenza
| % sui casi definiti
| 1999
| 2000
| 2001
| 2002
| 2003
| 2004
| Totale
periodo
| Estinzione
| 83,6%
| 80,3%
| 80,3%
| 79,0%
| 80,9%
| 81,7%
| 80,9%
| Proroga
| 1,8%
| 1,7%
| 1,3%
| 1,1%
| 1,6%
| 2,7%
| 1,7%
| Proscioglimento
| 0,3%
| 0,2%
| 0,2%
| 0,2%
| 0,2%
| 0,5%
| 0,2%
| Rinvio a dibattimento
| 3,5%
| 5,0%
| 4,2%
| 4,2%
| 3,2%
| 3,7%
| 4,0%
| Condanna
| 6,7%
| 8,2%
| 8,6%
| 10,4%
| 7,2%
| 6,1%
| 7,9%
| Altro
| 4,2%
| 4,6%
| 5,4%
| 5,1%
| 6,9%
| 5,4%
| 5,3%
| |
L'istituto entra a pieno titolo nell'ambito degli istituti di probation, nati e sviluppatisi negli ordinamenti anglosassoni. Com'è noto, nelle legislazioni di diversi Paesi è possibile individuare diversi tipi di probation:
probation di polizia;
probation giudiziale nella fase istruttoria, modello appunto adottato in Italia nel processo minorile (articolo 28 delle disposizioni sul processo penale a carico di imputati minorenni, di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 488 del 1988, articolo 27 delle relative norme di attuazione, di cui al decreto legislativo n. 272 del 1989, in cui la messa in prova non presuppone la pronuncia di una sentenza di condanna;
probation giudiziale nella fase del giudizio con sospensione dell'esecuzione della condanna, disciplinata nel nostro ordinamento solo con riferimento alle pene detentive contenute nel limite dei tre anni nei confronti di soggetti a piede libero (articolo 656 del codice di procedura penale, ma disciplinata dall'ordinamento penitenziario e gestita dalla magistratura di sorveglianza);
probation penitenziaria, soluzione adottata in Italia dal legislatore del 1975 e tuttora vigente (articoli 47 e seguenti della legge n. 354 del 1975 e articolo 94 del testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica n. 309 del 1990).
In attesa di un'organica riforma della complessa disciplina della messa alla prova e dei suoi rapporti con l'istituto della sospensione condizionale della pena, allo studio della Commissione di riforma del codice penale, si è ritenuto di recuperare, per i reati di criminalità «medio-piccola», un ruolo importante alla probation giudiziale con sospensione del procedimento, ancorandola alla richiesta dell'imputato, in funzione deflativa del numero dei procedimenti, inserendo, con l'articolo 26 del disegno di legge, l'articolo 168-bis del codice penale (sistematicamente, dopo la sospensione condizionale della pena, fra le cause estintive del reato).
La sua concessione, in assenza di una pena concretamente irrogata dal giudice, deve essere ancorata a parametri edittali.
Si è quindi pensato di prevederne l'applicabilità per i reati per i quali è comminata in astratto la sola pena pecuniaria (multa o ammenda) ovvero una pena edittale detentiva (reclusione o arresto) non superiore ai due anni, sola o congiunta con pena pecuniaria, onde confinare l'istituto entro un perimetro di reati di non grave allarme sociale e in grado di assorbire in gran parte l'area contravvenzionale. In caso di pene alternative si farà riferimento solo alla pena edittale massima detentiva. Vengono, però, espressamente esclusi dall'applicabilità dell'istituto i reati previsti dal testo unico di cui al decreto del Presidente della Repubblica 6
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giugno 2001, n. 380 (reati edilizi), nonché dall'articolo 173-bis del testo unico delle disposizioni in materia di intermediazione finanziaria e dagli articoli 2621 e 2624 del codice civile (reati di false comunicazioni sociali); l'elevato disvalore sociale all'interno di un settore quale quello economico, da un lato, e l'estrema difficoltà di ripristino dello status quo ante che le caratterizza, dall'altro, hanno infatti imposto nei confronti dei loro autori un trattamento differenziato in relazione all'istituto dell'affidamento in prova.
L'articolo 27 del disegno di legge prevede poi la disciplina processuale dell'istituto, con l'introduzione nel codice di rito degli articoli 420-sexies, 420-septies e 420-octies; in particolare, la concessione del beneficio è subordinata a specifica richiesta da parte dell'imputato, da formulare prima dell'inizio della discussione, nonché alla presentazione da parte del medesimo di un programma di reinserimento sociale concordato con il servizio sociale per adulti, il quale preveda:
a) le modalità di coinvolgimento dell'imputato, del suo nucleo familiare e del suo ambiente di vita nel processo di reinserimento sociale, ove ciò risulti necessario;
b) le prescrizioni comportamentali e gli impegni specifici che l'imputato assume al fine di elidere o di attenuare le conseguenze del reato;
c) le condotte volte a promuovere, ove possibile, la conciliazione dell'imputato con la persona offesa.
Il beneficio è concesso quando il giudice ritiene che l'imputato si astenga dal commettere ulteriori reati.
L'impostazione seguìta prevede, sul modello di alcuni Paesi europei (Spagna e Norvegia, ad esempio), che il giudice, nel mettere alla prova il condannato, possa impartire ulteriori obblighi e prescrizioni comportamentali. Al fine di decidere se concedere il beneficio ovvero al fine di determinare i contenuti del programma, il giudice può acquisire, tramite la polizia giudiziaria, i servizi sociali o altri enti pubblici, tutte le informazioni relative alle condizioni di vita personale, familiare, sociale ed economica dell'imputato. Tale norma appare necessaria nell'ottica di una individualizzazione della pena e degli istituti di reinserimento sociale.
Il periodo di sospensione è fissato, nel massimo, in due anni per le pene detentive, e in un anno per quelle pecuniarie.
L'esito positivo della prova estingue il reato.
Il nuovo articolo 420-octies prevede che, in caso di esito negativo della prova, di grave violazione delle prescrizioni e degli obblighi imposti, nonché in caso di commissione di reati durante il periodo di prova, l'ordinanza di sospensione venga revocata e il processo riprenda il suo corso. Il periodo di prova viene, in tal caso, scomputato dalla pena inflitta, sulla base di un'apposita tabella di conversione (dieci giorni di prova equivalgono a un giorno di pena detentiva o a 150 euro di pena pecuniaria); l'articolo 27, comma 1, lettera c), prevede, infatti, una modifica in tal senso del codice di rito, con l'introduzione dell'articolo 657-bis.
Si prevede, altresì, la ricorribilità per cassazione da parte del pubblico ministero e dell'imputato contro il provvedimento che decide sull'istanza di sospensione, nonché la previsione della sospensione del corso della prescrizione per tutta la durata della prova.
È stata poi inserita dall'articolo 28 del disegno di legge una norma all'interno delle norme di attuazione del codice (articolo 191-bis) che precisa che le funzioni di servizio sociale, in caso di messa alla prova, sono svolte dagli uffici locali dell'esecuzione penale esterna del Ministero della giustizia, ai sensi dell'articolo 72 della legge 26 luglio 1975, n. 354, e successive modificazioni. Sono poi disciplinate le modalità di predisposizione del programma di reinserimento sociale, gli obblighi di informazione periodica all'autorità giudiziaria procedente, la relazione finale sulla prova.
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Nel capo XII, gli articoli 29 e 32 disciplinano la copertura finanziaria (con clausola di invarianza) e l'entrata in vigore del provvedimento. In particolare l'articolo 32, comma 2, prevede che l'efficacia della disciplina relativa alle notificazioni da effettuare con il mezzo della posta elettronica venga differita sino alla data di entrata in vigore della normativa che renda effettivo il ricorso a tale mezzo.
L'articolo 30 prevede, infine, una diversificata normativa transitoria volta a risolvere gli eventuali problemi pratici e interpretativi che si potrebbero venire a creare alla data di entrata in vigore della legge.